Violazione del consenso informato: fonte di responsabilità penale?

I principi generali e la responsabilità civile

Nell’ambito dell’attività terapeutica, il consenso informato svolge un ruolo cruciale, essendo considerato dalla costante giurisprudenza di legittimità, sia come un vero e proprio «diritto irretrattabile» della persona (Cass. civ., Sez. III, n. 20984/2012; Cass. civ., Sez. III, n. 16543/2011), sia come «legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l’intervento del medico è…sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente» (Cassazione civile, sez. I, n. 21748/2007; Cassazione civile, sez. III, 13/02/2015,  n. 2854).

Dunque l’acquisizione del consenso da parte del medico consente al diretto interessato, in primo luogo, di veder tutelato il proprio diritto all’autodeterminazione e in secondo luogo, di partecipare attivamente e consapevolmente alla scelte riguardanti un bene inviolabile di cui è titolare, la salute, su cui il sanitario si impegna ad intervenire.

Al fine di garantire la non arbitrarietà del trattamento terapeutico, la cui obbligatorietà secondo quanto stabilito dall’art. 32 della Costituzione italiana e da Convenzioni internazionali (ad esempio Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo nel 1997 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000), può discendere unicamente da disposizioni di legge che intendano tutelare beni meritevoli di maggiore e prioritaria protezione (ad esempio la salute pubblica), la legge (art. 33 L. n. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) richiede che il consenso prestato dal paziente sia qualificabile, appunto, come «informato».

Ciò significa che il medico deve necessariamente e personalmente fornire al paziente una pluralità di informazioni in ordine alla natura del trattamento terapeutico cui intende procedere, rendendolo edotto delle prevedibili conseguenze derivanti dallo stesso, delle sue implicazioni, delle possibili alternative praticabili e della eventualità di un possibile aggravamento delle condizioni di salute del paziente, in modo tale da garantire al diretto interessato di valutare in maniera ponderata l’opportunità del trattamento (a tal fine la Corte di Cassazione esclude che adempia correttamente all’obbligo su lo stesso gravante, il medico che si limiti a sottoporre al paziente un modulo standard da cui emergono i rischi del trattamento: in tal senso, Cassazione Civile, Sez. III, n. 2177/2016).

La completa e corretta acquisizione del consenso informato costituisce, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, «prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente» (Cassazione Civile, sez. III, n. 2854/2015; Cassazione Civile, Sez. III, n. 11950/2013)

Per quanto attiene, dunque, alla responsabilità che, in sede civile, incombe sul medico per il mancato assolvimento dell’onere informativo su di esso gravante, avente ad oggetto tutti gli elementi, in precedenza indicati, rispetto ai quali il paziente deve essere posto a conoscenza, la Corte di Cassazione ha affermato che il rimprovero mosso al sanitario «discende dal solo fatto della sua condotta omissiva, a prescindere dalla circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente, o meno; sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che a causa del difetto di informazione il paziente non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, né è corretto sostenere che, a fini risarcitori, il danneggiato debba anche allegare il suo probabile rifiuto all’intervento in ipotesi di adeguata informazione» (Cass. Civ., Sez. III, n. 14642/2015).

Tale responsabilità discende dal fatto che, secondo altra pronuncia di legittimità (Cassazione Civile, Sez. III, n. 19731/2014), il consenso informato «costituisce elemento strutturale dei contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario, e conseguentemente, l’inadempimento del debitore della prestazione di garanzia è idoneo a ledere i diritti inviolabili della persona cagionando anche pregiudizi non patrimoniali».

La responsabilità penale per i reati di violenza privata e lesioni volontarie

Per quanto attiene, invece, alla responsabilità penale, nella ricorrente casistica, emerge come, più volte, proprio la assenza o incompletezza dell’informazione ricevuta dal paziente sono state invocate a sostegno della tesi accusatoria volta ad affermare la consumazione dei delitti di violenza privata (art. 610 c.p.) e di lesioni personali (art. 582 e s. c.p.).

La recente giurisprudenza di legittimità ha tuttavia chiarito che, in ottemperanza al principio di legalità, per l’integrazione delle fattispecie penali sopraindicate, il trattamento medico che si ritiene posto in essere in modo arbitrario (dunque in assenza del consenso del paziente ovvero in presenza di una informazione lacunosa), deve essere  attuato per mezzo di una condotta che sia «inquadrabile in una delle fattispecie penali tipizzate, che possono essere interpretate estensivamente, ma non analogicamente, e che la condotta imputata al medico sia offensiva proprio dell’interesse tutelato dalla norma penale» (Cass. Pen., Sez. V, n. 16678/2015).

Dunque sarà da ritenere sicuramente illecita dal punto di vista penale la condotta del medico che agisca contro la volontà del paziente ovvero che agisca, fornendo «una informazione volutamente lacunosa o decipiente al fine di perseguire scopi altrimenti illeciti» (Cass. Pen., Sez. V, n. 16678/2016; Cass. Pen., Sez. IV, n. 21799/2010), sia che l’esito dell’intervento sia fausto che infausto.

Di converso, secondo la sopra richiamata giurisprudenza, nel caso in cui il medico agisca in presenza di uno scopo terapeutico, l’assenza o il vizio del consenso non permettono di qualificare la condotta del medico (il quale, ad esempio, abbia agito non prospettando in maniera del tutto chiara i rischi o legati ad un determinato intervento ovvero abbia dovuto cambiare tipologia di trattamento nel corso di una operazione chirurgica per motivi sopravvenuti e non prevedibili) in termini di violenza privata, in quanto verrebbe a mancare «il connotato che più la caratterizza: la prospettazione di un male – la cui verificazione dipende dall’agente – o lo spiegamento di una energia fisica o morale diretta a coartare il volere della vittima» (Cass. Pen., Sez. V, n. 16678/2016).

Discorso analogo vale per la configurabilità del delitti di lesioni personali (art. 582 c.p.) il quale presuppone «una  attività  diretta  a  cagionare  un male  alla  persona,  da  cui deriva una malattia nel corpo e nella mente.

Per integrare la relativa fattispecie penalmente rilevante si «richiede cioè, secondo principi noti… il verificarsi… di una malattia (elemento oggettivo) e la coscienza e volontà di provocarla (elemento soggettivo, con le modulazioni proprie del dolo)». Ebbene, è fuori discussione che il medico, allorché agisce per fini terapeutici (e non per fini sperimentali, di lucro, di prestigio, o per altri fini altrimenti speculativi), non pone in essere alcuna attività diretta a procurare un male, ma agisce (bene o male, non è questa la sede per discuterne) per risolvere una patologia.  Egli… “prevede” la possibilità di aggravare le condizioni del paziente ma non la “vuole”; anzi è disvolente rispetto ad essa ed opera perché non si concretizzi. Se nonostante i suoi sforzi, la malattia sopravviene, non gli può essere imputata, in ragione della cattiva informazione fornita al paziente…perché manca il rapporto di derivazione con l’addebito – essendo conseguenza dell’evoluzione del male, che egli non è riuscito a contrastare – e perché manca un profilo di imputazione a livello soggettivo».

In questi casi, così come affermato nell’arresto giurisprudenziale di cui sopra, a prescindere dall’esito fausto o infausto dell’intervento, la Corte ha precisato che è il «finalismo terapeutico che esclude il dolo di lesioni, per la logica incompatibilità tra essi esistente».

Secondo quanto affermato anche in altre pronunce di legittimità, così come riportato nella sentenza in esame, «la valutazione del comportamento del medico sotto il profilo che qui interessa (sussistenza del reato di lesioni personali dolose) “non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso, non presentando il giudizio sulla sussistenza della colpa e sul nesso di causalità differenze di sorta a seconda che vi sia stato o meno il consenso informato del paziente.”. Affermazione questa, che il Collegio ritiene di sottoscrivere alla fondamentale condizione…che l’opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un “finalismo curativo” non inquinato da scopi e interessi diversi, come quelli rimarcati nella sentenza impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno – comunque – pure sempre provati), i quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell’attività medica».

Se dunque il medico interviene sul paziente al solo scopo terapeutico, non fornendo tuttavia una informazione che possa considerarsi in linea con quanto precedentemente detto in merito alle condizioni necessarie affinché possa ritenersi effettivamente sussistente il consenso “informato”, dovrà essere esclusa la sua responsabilità penale difettando il dolo nel soggetto attivo del reato, non potendosi, pertanto, configurare i delitti di cui agli artt. 582 e 610 c.p. per mancanza dell’indefettibile componente psicologica prevista dalle rispettive fattispecie incriminatrici.

La responsabilità penale nei reati di omicidio e lesioni colpose.

Tema diverso è quello della responsabilità penale connessa alla violazione del consenso informato nei reati colposi, ove la condotta del sanitario negligente, imprudente o imperita ascritta contestata in ordine ai reati di lesioni ed omicidio colposo (artt. 589 e 590 sexies c.p., quest’ultimo introdotto dalla legge Gelli- Bianchi 8 marzo 2017, n. 24) spesso viene contestata oltre che in relazione all’evento dannoso (morte o lesioni del paziente)  anche per violazione dell’obbligo informativo gravante sul sanitario per aver omesso di acquisire un valido consenso informato prima di eseguire l’atto terapeutico o chirurgico.

In sede giurisdizionale la Suprema Corte con diverse pronunce (Cass. Pen., Sez. V, n. 16678/2015; Cass. Pen., Sez. IV, n. 2347/2014; Cass. Pen., Sez. IV, n. 21537/2015) ha affermato «che la mancanza o l’invalidità del consenso non ha alcuna rilevanza penale… il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato. Con la importante precisazione che non è di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, perché l’obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza: infatti l’acquisizione del consenso non è preordinata in via generale ad evitare fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), ma a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possono derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale (art. 32, comma 2)»

Dunque, in ottemperanza al principio di legalità, il mancato od incompleto assolvimento dell’onere informativo, non integra di per sé responsabilità penale avendo ulteriormente chiarito la Suprema Corte che l’acquisizione del consenso informato secondo i canoni previsti dalla legge e dalla giurisprudenza della stessa, non costituisce normalmente adempimento di una regola cautelare la cui inosservanza comporta l’insorgenza di una responsabilità penale a titolo di colpa.

Correlativamente è bene chiarire però che in ogni caso, in sede penale, il consenso informato se correttamente acquisto rappresenta istituto ben diverso rispetto alla scriminante del consenso dell’avente diritto, codificata dall’art. 50 c.p., il cui ruolo è quello di escludere l’antigiuridicità di un comportamento illecito, lesivo di un diritto di cui il titolare può validamente disporre, qualora consti il consenso dell’interessato.

Il consenso informato, come inteso in senso medico-legale, seppure correttamente acquisito, infatti, non scrimina in alcun modo il sanitario che abbia posto in essere una condotta (commissiva od omisssiva) dannosa per il paziente, in quanto il giudizio relativo all’esercente la professione sanitaria «non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso informato del paziente. Dunque il consenso informato, anche se corretto ed adeguato e corrisposto dalla reale ed integrale comprensione del paziente, non vale ad escludere la colpa del medico che abbia operato negligentemente o imperitamente ovvero in violazione delle leges artis. Ne consegue che a nulla rileva ex se, ai fini della esclusione della responsabilità, l’eventuale adeguatezza della comunicazione ed illustrazione dei rischi connessi all’intervento al paziente che si risolse, ciononostante, ad affrontarlo» (Cass. Pen., Sez. IV, n. 4541/2013).

Conclusivamente si può, pertanto affermare, che  nei reati colposi di evento – lesioni ed omicidio colposo – per accertare l’eventuale penale responsabilità del sanitario occorrerà fare esclusiva applicazione dei principi dettati in materia per valutare la illiceità dell’operato del sanitario avuto riguardo  alla condotta,  all’evento di danno ed al nesso di causalità, senza che vi possa essere alcun automatismo tra mancata e/o insufficiente acquisizione del consenso informato ed affermazione della responsabilità, degradando il primo ad elemento neutro rispetto alla valutazione del fatto-reato che dovrà compiere l’Autorità giudiziaria procedente.