Il difficile percorso assolutorio nel reato di omesso versamento dell’IVA

Il reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dall’art. 10ter del D. Lgs. 10 Marzo 2000, n. 74, così come modificato dal D.Lgs.158/2015, si configura quando il soggetto passivo d’imposta (generalmente l’imprenditore) «non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, – ossia il 27 Dicembre dello stesso anno di quello di presentazione, così come disposto dall’art. 6, comma 2, della legge 29 Dicembre 1990, n. 405 – l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta».

Il reato, dunque, si consuma (tempus commissi delicti) solo a seguito dell’inutile decorso del termine sopraindicato, non essendo qualsiasi omissione precedente a tale scadenza idonea a determinare l’insorgenza della responsabilità penale.

Stante il tenore letterale della succitata norma, presupposto indefettibile per la configurazione del reato in esame risulta la presentazione spontanea della dichiarazione annuale da parte del contribuente, a cui sia seguito l’omesso versamento degli importi Iva così come risultanti dalla dichiarazione ed autoliquidati dal contribuente stesso. Si esclude di conseguenza la configurabilità del reato di omesso versamento dell’Iva qualora la maggiore o diversa imposta sia il risultato di operazioni di accertamento poste in essere d’ufficio dall’organo competente (in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale si configurerà il diverso reato di omessa presentazione della dichiarazione punibile ex art. 5 del decreto in esame).

Tra gli elementi costitutivi del reato figura inoltre, così come di recente affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, n. 3098/2016), la soglia di punibilità indicata dalla norma (imposta non versata maggiore di € 250.000), la quale non risulta più configurabile in termini di condizione obiettiva di punibilità (come invece autorevolmente e diversamente sostenuto da diversi orientamenti giurisprudenziale) ma costituisce «quota di rilevanza quantitativa e/o qualitativa del fatto tipico» che deve dunque «essere oggetto di rappresentazione e volontà» (secondo quanto affermato dalla sopracitata pronuncia).

Il reato è punibile a titolo di dolo generico in quanto l’art. 10ter non richiede che il fatto sia compiuto al fine specifico di evadere l’imposta, consumandosi lo stesso, così come affermato da un orientamento della giurisprudenza di legittimità ormai consolidato (Cass. Pen., Sez. III, n. 5467 del 2014; Cass. Pen., Sez. III, n. 15176 del 2014; Cass. Pen. Sez. III, n. 1725 del 2015; Cass. Pen., Sez. III, n. 7429 del 2015; Cass. Pen., Sez. III, n. 18501 del 2015) in presenza della mera consapevolezza, coscienza e volontà di omettere il versamento di quanto dovuto che si ritiene provata con la presentazione della dichiarazione.

Dalla ricorrente casistica registrata in sede di legittimità e di merito, nonché dall’esperienza dello scrivente maturata in diversi processi nei quali risultava contestato l’art. 10 ter del D. Lgs. 10 Marzo 2000, emerge come comune denominatore la obiettiva difficoltà della difesa di provare la insussistenza dell’elemento psicologico del reato, ovvero la presenza di una causa di forza maggiore che abbia impedito al contribuente di porre il essere il comportamento giuridicamente richiesto, escludendo la possibilità di invocare la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p., ancorato alla semplice difficoltà economica dell’impresa.

Nello specifico, dalla disamina delle più recenti pronunce si ricava che l’esimente di cui sopra non è stata ritenuta provata dall’impiego di risorse per scongiurare la perdita del posto di lavoro del personale impiegato dall’impresa, né dalla necessità di adempiere alle obbligazioni verso terzi per evitare la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto, tali circostanze, non risultano idonee a giustificare un comportamento illecito ma imposto «al fine di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona» (Cass. Pen. Sez. III, n. 1725 del 2015; Cass. Pen., Sez. III, n. 7429 del 2015) rappresentando, di converso, indice rilevatore di una precisa scelta imprenditoriale che ha pretermesso gli interessi dell’Erario a vantaggio della continuità dell’impresa.

Ed ancora nella concreta esemplificazione delle fattispecie l’antigiuridicità del fatto non è stata esclusa quando a causa dello stato di dissesto economico e finanziario, l’imprenditore ha addotto le seguenti giustificazioni alla condotta fiscalmente inadempiente:

«a) l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare licenziamenti;
b) l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società;
c) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, verso la clientela e spesso nei confronti dello Stato».

Occorre, invero, che tali elementi siano avallati e provati tramite l’assolvimento di «oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo il ricorso al credito bancario)… il ricorrente… dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le necessarie risorse a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili» (in tal senso: Cass. Pen., Sez. III, n. 5467 del 2014; Cass. Pen., Sez. III, n. 7429 del 2015;Cass. Pen., Sez. III, n. 40352/2015; Cass. Pen., Sez. III, n.30397/2016; Cass. Pen., Sez. III, n. 18834/2017).

Conseguentemente solo una causa di forza maggiore quale «fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente» può scriminare un comportamento illecito da parte del contribuente, non essendo possibile esigere una condotta diversa in presenza di cause del tutto indipendenti dalla volontà di quest’ultimo.

Si riconosce, dunque, la possibilità di far valere la prova della inesigibilità di un comportamento diverso sempre che venga fornita prova rigorosa della assoluta impossibilità all’adempimento del versamento IVA entro la data di consumazione del reato e dei concreti, ma vani, tentativi del soggetto nei confronti del quale viene elevata imputazione di aver cercato in ogni modo di far fronte all’obbligo fiscale gravante sull’impresa.

Si segnala che tale principio generale ha trovato concreta applicazione con la recente sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza n. 15176/17, depositata il 27.03.2017.

Invero, con tale arresto, la Corte di legittimità ha ritenuto non punibile l’imputato, avendo egli dimostrato che la crisi di liquidità, addotta a giustificazione del comportamento antigiuridico, effettivamente non era ascrivibile a sua colpa, in quanto determinata principalmente dall’emissione di fatture aventi ingenti importi tuttavia mai riscossi, ovvero saldati con considerevole e sistematico ritardo da parte dei clienti dell’impresa, essendosi poi l’imprenditore meticolosamente attivato al fine di reperire risorse utili anche per mezzo del ricorso al credito bancario, i cui oneri avevano per di più e di fatto inasprito ulteriormente la situazione di dissesto economico.

Decisiva, dunque, è la impostazione della linea difensiva che sin dalla fase delle indagini preliminari dovrà tendere a selezionare la idoneità e la specificità delle singole allegazioni che formano oggetto della prova a discarico dell’imputato.

Quindi oltre ai dati ricavabili dai bilanci e dalla contabilità dell’impresa quali elementi di prova documentale da veicolare preferibilmente con il mezzo di prova della consulenza tecnica, la difesa dovrà, altresì, nei termini di legge, articolare specifica prova testimoniale ricognitiva da un lato delle scelte aziendali che non devono risultare pregiudizievoli all’adempimento dell’obbligo tributario (versamento dell’Iva) e dall’altro porre in evidenza la diligenza del legale rappresentante dell’impresa, indagato (fase delle indagini preliminari) o tratto a giudizio (processo nella fase del dibattimento) nell’attivarsi per reperire risorse da destinare al pagamento dell’Iva autoliquidata, oltre che ad assicurare la continuità dell’attività di impresa.