Le condotte vessatorie ed abituali del datore di lavoro legittimano la contestazione dell’art.572 c.p. (maltrattamenti in famiglia).
Con la sentenza del 2 dicembre 2016, n.51591 la Corte di Cassazione, sezione sesta penale, è tornata a pronunciarsi sul reato di maltrattamenti contro familiari ex art. 572 c.p. in relazione alle condotte vessatorie del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.
Il fatto addebitato.
All’imputato titolare di uno studio professionale (commercialista) nell’originario capo di imputazione che lo aveva tratto a giudizio innanzi al Tribunale di Aosta, veniva contestato il delitto di maltrattamenti in famiglia per aver sistematicamente posto in essere delle condotte prevaricanti ed oppressive nei confronti di una propria dipendente (nello specifico insulti, minacce, ingiurie, con assoluto disprezzo e tono di voce elevato, lancio di oggetti ed imposizione di comportamenti gratuitamente prevaricanti, tali da incidere pesantemente sulle libertà personali; condotte del tutto avulsi dalle funzioni direttive disciplinari e poste in essere con piena consapevolezza), che secondo la pubblica accusa avrebbero integrato la fattispecie di maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Lo svolgimento del processo.
All’esito del giudizio di primo grado il Tribunale di Aosta aveva riqualificato i fatti ai sensi dell’art.571 c.p. come abuso di mezzi di correzione e di disciplina e condannato l’imputato per tale reato. La sentenza resa dal Giudice di prime cure veniva confermata in punto di responsabilità in grado di appello dalla Corte territoriale di Torino
Con la sentenza n.51591/2016 in commento la Suprema Corte, incidentalmente, nel rigettare il ricorso, ha però nuovamente valutato i fatti quali condotte integranti il più grave reato di maltrattamenti riconducendoli nell’alveo dell’art. 572 c.p..
Le ragioni del rigetto del ricorso.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio di legittimità, con ricorso teso ad escludere la sussistenza della condotta sussunta nell’abuso dei mezzi di correzione, la Suprema Corte, pur riconoscendo in capo al datore di lavoro un potere di correzione e disciplina, volto a perseguire qualità ed efficacia del risultato perseguito dalla singola organizzazione lavorativa, ha precisato che la parte datoriale può esercitare tale potere entro i limiti previsti dalle norme dello Statuto dei lavoratori e, più in generale dalla normativa positiva regolatrice dei rapporti di lavoro, chiarendo che “il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente è rapporto tra due persone poste sul medesimo piano, quanto al profilo della dignità e dell’autonomia individuale, sicché, tra loro, esula ogni prospettiva di un contenuto del potere disciplinare/organizzativo del primo nei confronti del secondo che sia, in qualunque modo, riconducibile al concetto di educazione” di talché, anche il ricorso ripetuto ad epiteti ingiuriosi e minacciosi, se inscritto in una condotta abituale deve essere considerato un abuso.
Il principio di diritto
Rispetto al fatto ascritto all’imputato nei gradi di merito il Collegio di legittimità, sulla base delle condotte ascritte all’imputato, ha ritenuto errata la qualificazione del fatto operata dai giudici di merito, in quanto, valorizzando la prova della sussistenza di alcune condotte particolarmente vessatorie (ad es. il lancio di oggetti) che avevano determinato uno stato di profondo disagio psichico nella lavoratrice del tutto “eccentriche” rispetto ai poteri di correzione e disciplina propri del datore di lavoro, ha affermato che: “Poiché la riferita situazione ambientale è sussumibile nel contesto lavorativo caratterizzato da quello che per comodità espositiva è stata qualificata come parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha esercitato l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità (per tutte, Sez. 6 sentenze 24642 del 19.03.2014, 24057 del 11.04.2014, 13088 del 05.03.2014, 12517 del 28.03.2012, 26594 del 06.02.2009), tali condotte debbono essere sussunte nella più grave fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen. (in tal senso, per tutte, Sez. 6 sent. 24057/2014 cit.).”
Il quadro giurisprudenziale.
La Cassazione, con la sentenza commentata, è tornata a pronunciarsi sulla materia dei reati in ambito lavorativo, confermando la giurisprudenza già sedimentata in materia, che colloca l’ambiente di lavoro nell’insieme di quei contesti sociali riconducibili al concetto di parafamiliarità, dunque affini e prossimi a quello di famiglia e in quanto tali soggetti alla tutela offerta dall’art. 572 c.p.
Tuttavia, occorre precisare, che il profilo della parafamiliarità in ambito lavorativo è configurabile solo se le relazioni che caratterizzano il contesto di lavoro siano prossime a quelle intercorrenti tra familiari (stretta comunanza di vita, affidamento e fiducia nonché ampia discrezionalità ed informalità) come nel caso di specie, trattandosi di studio professionale. La Corte, infatti, fa preciso riferimento alle dimensioni e alla natura del luogo di lavoro, indicando, così, agli operatori del diritto, che l’accertamento penale, seppur debba concentrarsi sul dato qualitativo del rapporto di lavoro, comunque, non può prescindere dal dato quantitativo, ossia le dimensioni dell’azienda.
Per maggiori approfondimenti sui criteri ermeneutici dei rapporti tra “mobbing” ed il delitto di cui all’art. 572 c.p. rimando alla lettura di un precedente articolo già pubblicato sul sito.