Incidente sul lavoro: i limiti della responsabilità del datore di lavoro ed il principio della ripartizione del rischio.
1. Sicurezza sul lavoro: gestione del rischio e posizioni di garanzia
La vigente disciplina della sicurezza nei luoghi di lavoro è contenuta nel d.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro) e succ. mod. Una normativa incentrata sulla prevenzione di tutti i possibili rischi connessi all’attività lavorativa mediante la puntuale programmazione del lavoro e la precisa organizzazione dell’azienda, nonché attraverso il coinvolgimento di differenti soggetti, tra cui i lavoratori stessi, all’attività di pianificazione e controllo del rischio.
Il sistema di tutela della sicurezza e della salute introdotto dalla normativa del 2008 si fonda su una ripartizione della gestione dei rischi connessi all’attività lavorativa tra differenti soggetti inseriti nell’organizzazione aziendale, i quali rivestono una posizione di garanzia in relazione alle possibili criticità derivanti dall’attività di lavoro rientranti nella propria sfera di competenza. Questi soggetti sono specificati dalla normativa in questione:
– il datore di lavoro, ossia il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o colui che abbia in concreto la responsabilità dell’organizzazione o dell’unità produttiva, con poteri decisionali e di spesa (art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2008);
– il dirigente, cioè quel soggetto che, in ragione delle proprie competenze professionali e nei limiti dei poteri dall’incarico conferitogli, è tenuto ad assicurare l’osservanza delle direttive del datore di lavoro, ad organizzare l’attività lavorativa e vigilare su di essa, identificandosi dunque come un collaboratore del datore di lavoro (art. 2, comma 1, lett. d));
– il preposto, cioè il soggetto chiamato a sovrintendere all’attività lavorativa, vigilando sulla osservanza delle direttive ricevute ed esercitando un potere di iniziativa relativo all’esecuzione dell’attività lavorativa, svolgendo, dunque, un’attività di sorveglianza sull’operato dei lavoratori (art. 2, comma 1, lett. e)).
Un ruolo-chiave nell’ambito della prevenzione dei rischi lavorativi, all’interno della struttura aziendale, è quello del servizio di prevenzione e protezione, al cui vertice è posto il Responsabile del servizio (RSPP), con funzione di assistenza al datore di lavoro e di collaborazione. Al servizio non sono attribuite vere e proprie funzioni “operative” dall’art. 35 d.lgs. n. 81/2008, ma perlopiù di carattere “consultivo”, ciò spiega l’assenza di sanzioni penali specifiche nei suoi confronti. Il fatto che questo organismo provveda esclusivamente a svolgere funzioni di supporto al datore di lavoro, individuando i fattori di rischio e collaborando nella formazione del personale (artt. 35 e 36 T.U.), non esclude, tuttavia, la responsabilità penale del Responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro. Il RSPP infatti potrà essere chiamato a rispondere penalmente per reati colposi di evento, come quelli riguardanti infortuni o tecnopatie, nel caso sia stata violata la normativa prevenzionale (in tal senso Cass. Pen., Sez. 4, n. 5983/2015).
Il T.U. prevede ulteriori figure chiamate a rivestire ruoli di collaborazione e garanzia e che integrano l’organigramma della sicurezza in azienda come gli Addetti del servizio di prevenzione e protezione (ASPP), il medico competente e i c.d. “debitori esterni di sicurezza” (costruttori, venditori, noleggiatori, installatori, ecc.).
Le definizioni formali dei vari soggetti garanti della sicurezza sono integrate dalla disposizione dell’art. 299 del T.U. che prevede che le posizioni di garanzia gravanti sul datore, sul dirigente e sul preposto sono riferibili altresì a coloro che, pur sprovvisti di formale investitura, esercitino in concreto i poteri giuridici attribuiti a ciascuno di questi soggetti.
2. Le fonti normative della responsabilità penale del datore di lavoro
A sostegno e completamento della legislazione in materia di sicurezza si pone l’art. 2087 c.c., che dispone: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La norma, generale e sussidiaria alla normativa specifica di settore, si pone quale fonte della responsabilità penale e civile del datore di lavoro, imponendo a quest’ultimo l’obbligo di predisporre tutte le misure necessarie ad assicurare la sicurezza dell’attività lavorativa, ricorrendo a tutti gli strumenti offerti dal progresso tecnologico.
Il combinato tra l’art. 2087 c.c. e l’art. 40 cpv. c.p., che sanziona l’omissione in caso di obbligo giuridico di agire (“Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”), permette di qualificare come penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro che ometta di adeguare i sistemi di sicurezza o non osservi le prescrizioni di legge relative alla prevenzione e alla sicurezza nei luoghi di lavoro.
2.1 La responsabilità del datore di lavoro nei reati omissivi
Il codice penale prevede specifiche fattispecie che puniscono, a titolo di colpa o dolo, la pura e semplice condotta omissiva del datore di lavoro (c.d. reati omissivi propri), come l’art. 437, che sanziona la volontaria mancata collocazione di impianti, apparecchi o segnali volti a prevenire gli infortuni sul lavoro, oppure l’art. 451 che sanziona la omissione colposa della collocazione di apparecchi antincendio o contro disastri ed infortuni. In queste particolari tipologie di reato, la punibilità si ricollega alla semplice omissione, indipendentemente dal fatto che da essa consegua, poi, un infortunio o altri eventi dannosi, seppure il codice preveda, nel caso che questi si verifichino, un’aggravante della pena.
Più complesso il discorso riguardo i c.d. reati omissivi impropri. Con questa categoria si fa riferimento a tutte quelle condotte di natura omissiva da cui derivi un evento tipico sanzionato penalmente, come le lesioni o la morte del lavoratore. In questi casi la rilevanza penale riguarda la produzione di uno specifico evento antigiuridico, verificatosi in conseguenza di una mancata azione imposta come doverosa dall’ordinamento o per una omissione dettata dall’imprudenza, negligenza o imperizia (art. 43 c.p.).
In queste situazioni, la giurisprudenza di legittimità ha esteso notevolmente l’alveo della responsabilità del datore di lavoro, il quale è stato identificato come garante per eccellenza dell’obbligo di assicurare la massima tutela nell’ambiente di lavoro, tenuto a verificare la competenza dei suoi subordinati, fornire adeguate apparecchiature e complete informazioni sullo svolgimento del lavoro, oltre che apprestare tutte le precauzioni previste dalla legge contro gli infortuni e i pericoli derivanti dall’attività lavorativa. Stante queste incombenze in capo al datore di lavoro (fondate essenzialmente sulla norma generale dell’art. 2087 c.c. e sulla normativa specifica inerente la sicurezza sul lavoro), tutti quegli eventi lesivi derivanti causalmente dalla mancata attività di prevenzione e formazione dovuta dal datore, saranno a quest’ultimo imputabili.
L’aver adempiuto alle prescrizioni formali riguardanti la prevenzione del rischio (come ad esempio, l’aver redatto il documento di valutazione dei rischi previsto dagli artt. 17 e 28 del d.lgs. n. 81/2008), come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, inoltre, non esenta il datore di lavoro dall’obbligo di tenere al riparo i lavoratori dai possibili rischi connessi all’attività lavorativa o alle scorrette prassi organizzative, attraverso la formazione e l’informazione degli stessi. A tal proposito si segnala Cass. Sez. 4, 08 giugno 2015, n. 24452, dove è specificato:
“La valutazione dei rischi ed il relativo documento costituisco efficaci strumenti al servizio della sicurezza, consentendo la messa a fuoco della situazione pericolose e, conseguentemente, l’adozione delle adeguate misure di sicurezza. Ma, con tutta evidenza, le valutazioni e prescrizioni contenute nel detto documento non limitano per nulla la responsabilità dei garanti che, nella maggior parte dei casi, trovano il loro fondamento prescrittivo nella articolata disciplina di settore.”
3. I limiti della responsabilità del datore di lavoro: la ripartizione dei rischi
La notevole diligenza che viene imposta al datore di lavoro dall’art.2087 c.c. non può tuttavia tradursi in una forma di responsabilità oggettiva, dovendosi, in ogni caso, verificare l’esistenza di una violazione di specifiche norme legali o di doveri imposti dalla prudenza ed esperienza (Cass., n. 15082/2014; Cass., n. 17438/2015).
A garanzia di tale principio, si prenda in considerazione il più recente orientamento della Cassazione, che a partire dalla sentenza ThyssenKrupp ha tentato di arginare gli eccessi punitivi nei confronti della figura del datore di lavoro, grazie anche alla nuova normativa introdotta nel 2008, attraverso la fissazione di principi di diritto idonei ad identificare, a seconda della specifica situazione aziendale, il soggetto facente parte dell’organizzazione dell’impresa, destinatario dell’obbligo di vigilare e prevenire il rischio che ha condotto alla situazione penalmente rilevante.
Proprio nella sentenza ThyssenKrupp (Cass., n. 38343/2014) è stato fissato il principio per cui la responsabilità nell’ambito delle organizzazioni lavorative deve essere valutata sulla base della ripartizione delle specifiche aree di rischio ai rispettivi soggetti garanti:
“Dunque, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio.”
La complessità dei moderni apparati aziendali, dunque, come indicato dagli stessi giudici di legittimità, impone che l’individuazione delle responsabilità passi attraverso la accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione.
In base alla normativa del T.U., ad ogni figura professionale viene attribuita una specifica competenza di garanzia, da valutare poi anche in base alla concreta situazione aziendale. Nella medesima sentenza si specifica:
“Nell’individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dalla identificazione del rischio che si è concretizzato, dal settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi rivestiva.” (In senso conforme Cass. pen., n. 24136/2016)
Ne discende che la responsabilità penale non ricadrà sul datore di lavoro ogniqualvolta l’evento lesivo penalmente rilevante sia ricollegabile ad una specifica area di competenza di un altro dei soggetti titolare di una posizione di garanzia (quali dirigenti, preposti, RSPP, ecc.). Difatti, la complessità delle organizzazioni aziendali moderne non permette al datore di lavoro di poter esercitare un continuo e pressante controllo su ogni attività svolta nel luogo di lavoro, tanto che per costui è necessario, spesso, affidarsi ad altri soggetti (figure specifiche identificate nel T.U. del 2008) per il controllo del lavoro e la prevenzione degli infortuni. La Cassazione, a tal proposito, ha più volte confermato che la condotta esigibile dal datore di lavoro “non si estende all’obbligo di monitoraggio “momento per momento” delle lavorazioni e dell’ottemperanza alle prescrizioni antinfortunistiche da parte dei lavoratori e degli altri soggetti obbligati” (Cass., n. 22837/2016, che richiama Cass., n. 10702/2012). Nel caso di specie la Corte di legittimità ha riformato la sentenza emessa in grado d’appello, che aveva confermato la condanna del datore di lavoro per omicidio colposo di un lavoratore, dovuto alla omessa vigilanza sul rispetto delle normative di sicurezza (nello specifico l’obbligo di predisporre i dispositivi anticaduta per il lavoro ad alta quota), con la motivazione che la gestione di quello specifico rischio rientrasse nella competenza del preposto.
3.1 I limiti della responsabilità del datore di lavoro: la condotta abnorme del lavoratore
Con l’introduzione del T.U. sulla sicurezza sul lavoro, si è realizzato un cambiamento notevole del sistema della responsabilità nei contesti lavorativi, mutando il ruolo stesso del lavoratore, considerato ora quale soggetto attivo nell’attività di prevenzione e tutela dell’ambiente lavorativo.
L’art. 20, comma 1 del d.lgs. n. 81/2008, stabilisce infatti che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”. La violazione degli obblighi in questo articolo previsti è sanzionata penalmente (art. 59, comma 1, lett. a)).
La attuale impostazione del sistema della sicurezza sul lavoro è fondata, dunque, oltre che sul sistema della prevenzione dei rischi anche su quello della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore in tale attività cautelare. Sulla base di tali principi la giurisprudenza di legittimità da diverso tempo tende ad escludere la responsabilità del datore di lavoro in tutte quelle situazioni penalmente rilevanti ed imputabili esclusivamente ad una condotta colposa del lavoratore, inosservante delle norme cautelari e non rientrante nell’area del rischio controllabile dal garante.
A tal proposito si segnala il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 41486/2015:
“In giurisprudenza, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” (che si rifà spesso all’art. 2087 c.c.), si è giunti – a seguito dell’introduzione del D. Lgs 626/94 e, poi del T.U. 81/2008 – al ricorso del concetto di “area di rischio” (Sez. 4, Sentenza n. 36257 del 01/07/2014 Ud. Rv. 260294; Sez. 4, Sentenza n. 43168 del 17/06/2014 Ud. Rv. 260947; Sez. 4, Sentenza n. 21587 del 23/03/2007 Ud. Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva. (…)
La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.
Le tendenze giurisprudenziali si dirigono anch’esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore”). (…)
Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore” (In senso conforme Cass., n. 8883/2016).
Dunque, come confermato in questa sede dai giudici, il sistema della normativa antinfortunistica si è trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro quale soggetto investito di un obbligo di vigilanza assoluta, ad un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.
La Corte inoltre, nella medesima sentenza, fornisce indicazione di quelle che devono essere le caratteristiche della condotta colposa del lavoratore tale da interrompere il nesso causale tra l’evento lesivo e l’eventuale omissione nell’attività di controllo e sorveglianza imputabile al datore di lavoro (ex art. 41, comma 2 c.p.), fissando principi già preventivamente introdotti dalla giurisprudenza (Cass., n. 10712/2012, ove viene specificato che la condotta del lavoratore “del tutto eccezionale ed imprevedibile, in alcun modo legata a quelle che l’hanno preceduta, finisce con l’assurgere a causa esclusiva di verificazione dell’evento”, assorbendo ed eliminando la eventuale colpa concorrente del datore di lavoro).
In particolare, onde escludere la responsabilità del datore di lavoro sarà necessario verificare che il lavoratore abbia posto in essere una condotta:
– “abnorme”: cioè posta in essere in maniera imprevedibile, al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla ha a che vedere con l’attività svolta;
– “esorbitante” o “eccentrica”: ossia che fuoriesce dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartite dal datore di lavoro o da chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo.
Un punto fermo fissato dalla giurisprudenza è la necessità che la condotta del prestatore di lavoro sia estranea all’area di rischio ricollegabile al governo del soggetto titolare della posizione di garanzia (in tal senso Cass. n. 15124/2016; Cass. n. 44327/2016). In caso contrario, infatti, la semplice abnormità della condotta non sarebbe comunque idonea ad eliminare la responsabilità (o corresponsabilità) del garante del rischio in quanto le stesse norme antinfortunistiche sono finalizzate a tutelare il lavoratore anche dalla propria negligenza e disattenzione, ponendo in capo al datore di lavoro anche il dovere di prevenire le possibili imprudenze del lavoratore rientranti nell’area di rischio deputata al suo controllo (cfr. la già citata sentenza 10712/2012).