Diffamazione a mezzo facebook: per la condanna occorre la prova dell’IP.

Con la sentenza n. 5352/2018 depositata il 05.02.2017 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla relazione tra il reato di diffamazione a mezzo stampa e utilizzo del social network facebook affrontando il tema della prova necessaria ad identificare l’autore del reato.

Il caso e lo svolgimento del processo

La Procura della Repubblica di Brindisi ha elevato nei confronti di una sindacalista l’imputazione di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, comma 3, c.p.) per aver diffuso attraverso il social network facebook un messaggio offensivo nei confronti del sindaco di una città.

Nel giudizio di primo grado l’imputata ha riportato condanna per il reato a lei ascritto.

Tale decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Lecce.

Avverso la pronuncia della Corte territoriale l’imputata ha proposto ricorso per cassazione contestando il criterio di valutazione della prova utilizzato dai giudici nel giudizio di merito per l’individuazione dell’autore del reato. 

La decisione della Cassazione e il punto di diritto

I Giudici del diritto hanno giudicato fondato ed accolto il ricorso rinviando ad altra sezione della corte di Appello per nuovo giudizio di merito.

Come ricostruito dalla Suprema corte, i Giudici del doppio grado di merito hanno fatto discendere l’evidenza della colpevolezza dell’imputata dalla provenienza del messaggio illecito da un profilo facebook che riporta nome e cognome della donna tratta a giudizio, dalla natura dell’argomento di discussione nel forum, ritenuto di interesse della ricorrente e dalla circostanza che non risulta che la stessa abbia mai lamentato o denunciato un utilizzo abusivo dei propri dati.

Orbene, gli elementi di prova indiziaria sopra richiamati, sono stati giudicati insufficienti per ascrivere la responsabilità del fatto illecito all’imputata e sullo specifico punto la Corte di Cassazione ha così statuito: “…Osserva questa Corte che la motivazione della sentenza di appello, non si confronta con le specifiche lagnanze mosse dalla difesa, relative alla indicata intestazione dell’IP individuato in origine dalla parte civile, riferibile al profilo facebook registrato a nome della sindacalista (omissis) forum sulla cui bacheca virtuale, secondo la ricorrente, intervenivano numerosi utenti che ben avrebbero potuto utilizzare il nickname della (omissis).

Né la motivazione della Corte territoriale si confronta con l’argomento difensivo secondo il quale, a prescindere dal nickname utilizzato, l’accertamento dell’IP di provenienza del post può essere utile per verificare, quanto meno, il titolare della linea telefonica associata.

Infine la motivazione del provvedimento impugnato non si confronta con l’argomento relativo alla dedotta carenza istruttoria circa la verifica tecnica di tempi e orari della connessione, risultando peraltro in ogni grado del giudizio di merito che la (omissis) ha contestato la paternità del post.

La convergenza degli indizi riscontrati dalla Corte territoriale, poi, non tiene conto della rilevata diversità di settori operativi della (omissis), rispetto alla categoria di lavoratori c.d. socialmente utili ai quali, secondo la prospettazione della ricorrente, ineriva la discussione del forum.”

Conclude poi la Corte che in definitiva la sentenza di appello “abbia optato per una motivazione insufficiente circa il prospettato dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputata”.

La Corte di legittimità con la pronuncia in commento ha dunque stabilito che ai fini della prova della penale responsabilità per diffamazione commessa tramite la piattaforma facebook non è sufficiente per la condanna del soggetto tratto a giudizio la mera riconducibilità nominale del profilo a cui è attribuito il post offensivo, ma sarà necessario altresì sia una verifica concreta sulla corrispondenza dell’IP (codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico) al prevenuto, sia l’accertamento della inesistenza di profili di utilizzo indebito di dati personali da parte di terzi soggetti che potrebbero rivelarsi i veri autori dei messaggi offensivi dell’onore e del decoro, come, nel caso di specie, argomentato dalla difesa in sede di merito e di legittimità.

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Quadro giurisprudenziale di riferimento in materia di diffamazione via social network:

Cassazione penale, sez. V, 04/12/2017, n. 5175.

La legge n. 48 del 2008 (Ratifica della convenzione di Budapest sulla criminalità informatica) non introduce alcun requisito di prova legale, limitandosi a richiedere l’adozione di misure tecniche e di procedure idonee a garantire la conservazione dei dati informatici originali e la conformità ed immodificabilità delle copie estratte per evitare il rischio di alterazioni, senza tuttavia imporre procedure tipizzate. Ne consegue che il giudice potrà valutarle secondo il proprio libero convincimento (fattispecie relativa alla pubblicazione di un post ingiurioso su Facebook).

Cassazione penale, sez. V, 19/10/2017, n. 101.

Si configura il reato di diffamazione a mezzo di strumenti telematici se i commenti diffamatori, pubblicati tramite post sul social network Facebook, possono, pur in assenza dell’indicazione di nomi, riferirsi oggettivamente ad una specifica persona, anche se tali commenti siano di fatto indirizzati verso i suoi familiari. 

Cassazione penale, sez. V, 29/05/2017, n. 39763.

In tema di diffamazione, l’individuazione del destinatario dell’offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell’offesa, sulla base di un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell’offesa (esclusa, nella specie, la configurabilità del reato per la condotta dell’imputato, che, in un post su Facebook, aveva espresso il suo sdegno per le modalità con cui erano state celebrate le esequie di un suo caro parente).

Cassazione penale, sez. V, 23/01/2017, n. 8482.

La pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook con l’attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all’art. 595, commi 2 e 3,c.p. ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa giustapposta dal Legislatore nel medesimo comma. Deve, infatti, tenersi distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall’ambito – più vasto ed eterogeneo – della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo. In caso di diffamazione mediante l’utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. n. 47 del 1948, ed in particolare, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 13.

Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.

È del tribunale penale la competenza a giudicare la condotta consistente nella diffusione di messaggi minatori e offensivi attraverso il social network Facebook, configurando i reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 c.p.

Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma c.p., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.

Cassazione penale, sez. V, 14/11/2016, n. 4873.

Ove taluno abbia pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con cui offendeva la reputazione di una persona, attribuendole un fatto determinato, sono applicabili le circostanze aggravanti dell’attribuzione di un fatto determinato e dell’offesa recata con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ma non quella operante nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

Cassazione penale, sez. V, 07/10/2016, n. 2723.

La divulgazione di un messaggio di contenuto offensivo tramite social network ha indubbiamente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, proprio per la natura intrinseca dello strumento utilizzato, ed è dunque idonea ad integrare il reato della diffamazione aggravata (fattispecie relativa all’inserimento di un messaggio offensivo sul profilo Facebook della persona offesa).

Cassazione penale, sez. V, 13/07/2015, n. 8328.

La condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, sicché, se tale commento ha carattere offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.