La natura fittizia della società emittenti le fatture costituisce indice sufficiente per ritenere provato il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000.

Con la sentenza n. 1968/2018, la III Sezione penale della Corte di Cassazione ha fornito interessanti spunti di riflessione attorno al tema dell’individuazione degli elementi sintomatici dell’inesistenza oggettiva delle fatture emesse ed utilizzate in dichiarazione, in relazione al reato punito all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000.

Il caso e lo svolgimento del processo

La Corte di appello di Trento confermava la pronuncia emessa il 5/12/2014 dal Tribunale di Bolzano con la quale gli imputati erano stati giudicati colpevoli di plurime violazioni dell’art. 2, d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, con riguardo a numerose fatture per operazioni inesistenti utilizzate negli anni 2006-2010.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso uno degli imputati, deducendo, tra le varie doglianze, vizio di legge e di motivazione circa la prova della consumazione del reato in contestazione, in quanto prima il Tribunale e poi la Corte territoriale avrebbero elevato al rango di prova mere presunzioni tributarie prive di conferma in sede processuale penale.

La decisione della Cassazione e il punto di diritto

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza.

Per quanto di interesse per il presente commento i Giudici di legittimità nel confermare la ricostruzione operata in sede di merito sulla oggettiva inesistenza delle operazioni contestate ha osservato che: “la sentenza ha evidenziato l’oggettiva inesistenza delle operazioni indicate nelle fatture sub art. 2, d. lgs. n. 74 del 2000, indicando – emittente per emittente – quali precisi indici emergessero a sostegno dell’ipotesi accusatoria. Dal che, dunque, l’analitico esame delle società che avrebbero eseguito le prestazioni fatturate alla “(Omissis) s.r.l.”, della quale (Omissis) era legale rappresentante; società i cui amministratori o titolari erano risultati evasori totali per lunghi anni (compresi quelli di interesse), spesso prive di qualsivoglia struttura aziendale o di dipendenti, se non addirittura chiuse (come la ditta Omissis, cessata già nel 1996). In sintesi, enti che non potevano aver eseguito i lavori indicati nei documenti fiscali di cui alla rubrica. Ancora, la Corte di merito – come già il Tribunale – ha sottolineato l’assoluta genericità dell’oggetto proprio di molte delle fatture, in uno con l’assenza di contabilità in capo alle emittenti; del pari, ha evidenziato che sovente, appena ricevuto il pagamento dalla “(Omissis)” a mezzo assegno, l’emittente aveva eseguito un considerevole prelievo in contanti, sì da doversi ritenere – con ogni verosimiglianza – che in tal modo fosse restituito l’importo ricevuto, almeno in parte, detratto cioè il profitto pattuito per l’emittente di turno”.

Passando poi all’elemento soggettivo del reato, secondo i Giudici del diritto esso sarebbe stato correttamente individuato “per il sol fatto che le fatture in esame fossero state iscritte in contabilità per incrementare gli elementi passivi utili a quantificare la base imponibile; dolo, dunque, non meramente presunto (come affermato dal ricorrente), ma logicamente desunto dall’elevatissimo numero di fatture per operazioni inesistenti poi inserite in dichiarazione, tali da confermare la ripetitività di una condotta il cui unico scopo poteva essere la violazione della normativa tributaria”.