Parto cesareo: la posizione di garanzia del ginecologo, il principio di affidamento e la responsabilità dell’équipe.
Con la recente sentenza n. 7667/2018 la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente in materia di responsabilità medica, relativamente alla posizione di garanzia del medico chirurgo (ginecologo) rispetto alla paziente e del suo ruolo all’interno dell’équipe sanitaria.
Il caso clinico e lo svolgimento del processo
I due sanitari – ginecologi – venivano tratti a giudizio davanti al Tribunale di Matera per rispondere del reato di omicidio colposo (artt. 113 e 589 cod. pen.) perché, in cooperazione tra loro, quali medici in servizio presso il Reparto di Ostetricia e Ginecologia del Presidio Ospedaliero locale, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e/o imperizia, nonché per colpa specifica consistita nella violazione delle leges artis, cagionavano la morte di una paziente, deceduta a causa di una emorragia intraddominale originata da una lesione non suturata del segmento inferiore destro della parete uterina, conseguente al parto cesareo cui era stata sottoposta da uno dei coimputati che l’aveva in cura, con l’assistenza del secondo, medico di guardia presso l’ospedale.
Riassumendo la vicenda oggetto del giudizio, i giudici di merito hanno dato atto che i due medici sottoponevano la paziente a parto cesareo. All’esito dell’intervento, veniva prescritto un emocromo di controllo e uno dei due medici si allontanava dall’ospedale. Gli esiti pervenuti alle ore 2,21 rivelavano valori di emoglobina pari a 7,6 e di ematocrito pari a 23,7%. Il sanitario rimasto in servizio sulla scorta di tali risultati, ordinava di ripetere gli esami dopo 4 ore, di tenere la donna sotto osservazione e di essere avvisato in caso di necessità.
Alle ore 3,30 le condizioni della paziente si aggravavano tanto che il medico, riscontrando uno stato di shock e di stress respiratorio, sindrome dispnoica e sudorazione profusa, richiedeva l’intervento urgente del medico anestesista di turno, il quale trovava la donna pallida, sudata, in stato di agitazione psicomotoria, ipotesa (70/40), tachicardica (145), con diuresi contratta e buona saturazione nonché notevolmente iperglicemica (513 mg/dc), tanto da necessitare della somministrazione di insulina. Considerata la gravità della situazione, l’anestesista chiamato a consulenza, disponeva il trasferimento della donna nella sala travaglio ove la intubava e la sottoponeva ad un EGA da cui risultava un valore di emoglobina pari a 4,5 che rendeva necessaria una trasfusione urgente dapprima con due sacche di sangue e, poi, con altre otto.
Il ginecologo rimasto in servizio provvedeva quindi ad informare il collega che aveva lasciato il nosocomio delle complicazioni registratesi e quest’ultimo tornava in ospedale intorno alle ore 4,20 circa. Valutata la situazione decideva di non rioperare la donna ed optava per un’ecografia all’esito della quale escludeva la presenza di sangue nell’addome e conseguentemente la sussistenza di ragioni per un’indicazione chirurgica urgente.
Alle ore 6,45, subentrava una seconda crisi con bradicardia e desaturazione, sicché gli anestesisti richiedevano l’intervento urgente del primario di chirurgia il quale alle successive ore 7,40 sottoponeva la paziente ad intervento chirurgico rinvenendo abbondante sangue in cavità addominale tanto da posizionare tappi compressi nello spazio prevescicale ed applicare punti di sutura a tutto spessore a livello del decorso delle arterie uterine e sulla breccia chirurgica senza, tuttavia, rimediare efficacemente alla situazione gravemente compromessa che, infatti, alle successive ore 9,30 conduceva all’exitus della paziente.
All’esito del giudizio di primo grado, il tribunale assolveva il ginecologo rimasto in ospedale che aveva coadiuvato il primo chirurgo, per non aver commesso il fatto, mentre dichiarava il sanitario che materialmente aveva proceduto al parto cesareo colpevole del reato ascrittogli e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia.
A seguito di impugnazione proposta dal pubblico ministero, dalle parti civili e dal medico condannato, veniva incardinato il giudizio di secondo grado davanti alla Corte d’Appello di Potenza la quale, in parziale riforma della pronuncia impugnata, ribaltando il verdetto assolutorio, ha condannato anche l’altro imputato, mandato assolto in primo grado confermando, al contempo, la condanna già emessa nei confronti dell’altro imputato.
Avverso detta sentenza hanno interposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.
La decisione della Cassazione e il punto di diritto
La Suprema Corte rigetta i ricorsi dei due imputati confermando le valutazioni in fatto ed in diritto espresse dalla Corte territoriale.
In particolare, con riferimento alle censure sollevate dal ricorrente che aveva visto in primo grado di giudizio la propria assoluzione, poi, ribaltata in secondo grado, la Suprema corte condivide quanto stabilito nella motivazione della sentenza d’appello.
La Corte territoriale, come ritenuto dai Giudici del diritto infatti, ha giustamente escluso che potesse essere esentato da responsabilità il ricorrente sul presupposto che sarebbe stata condivisibile la scelta di attendere il collega con maggiore anzianità di servizio ed esperienza e che aveva preventivamente seguito la gravidanza della paziente, come invece deciso dal Tribunale.
Sulla scorta di quanto accertato in punto di fatto in sede di merito, la Corte di Cassazione ha statuito che il medico rimasto in ospedale non poteva fare acriticamente affidamento sulla correttezza della condotta professionale del collega ginecologo che aveva condotto il parto cesareo in quanto egli stesso avrebbe dovuto valutare il caso e disporre, durante il considerevole lasso di tempo in cui ne era stato l’esclusivo garante, l’intervento salvifico sollecitato anche dall’anestesista di cui era stata richiesta la consulenza in urgenza.
Sotto tale profilo, la Corte territoriale ha considerato infatti che, secondo il giudizio espresso sul punto dai consulenti tecnici, eseguendo tempestivamente l’isterectomia – che si imponeva con assoluta urgenza e che, nello specifico, non comportava apprezzabili rischi per la salute della donna – egli ne avrebbe impedito la morte.
I giudici di secondo grado hanno inoltre correttamente ravvisato nella condotta del ricorrente uno specifico errore diagnostico consistito nel non aver riconosciuto fin dal momento in cui si era registrata una sensibile diminuzione dei globuli rossi, dell’emoglobina e dell’ematocrito, gli indici dell’emorragia in atto, in quanto detti parametri erano sintomatici di una notevole perdita di sangue superiore ai normali valori di 600 – 700 ml. Già in quella fase, pertanto, come rilevato dagli esperti la cui consulenza tecnica è stata assunta in dibattimento, si sarebbe dovuto optare per la soluzione chirurgica o, quanto meno, per una TAC d’urgenza che avrebbe certamente consentito di individuare la perdita, sicché l’omissione di tali adempimenti ha integrato un preciso errore terapeutico con conseguente responsabilità dell’imputato per l’evento lesivo derivatone.
Ed in punto di diritto, la Suprema corte, inserendosi nel solco di una giurisprudenza di legittimità già sedimentata ha così statuito: “Non vi è dubbio infatti che la relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita (Sez. 4, n. 10819 del 04/03/2009, Rv. 243874). (…)
Questa Corte ha già infatti avuto modo di precisare, con riferimento ad un caso del tutto simile a quello in esame, che in tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, con la conseguenza che qualora, anche per l’omissione del successore, si produca l’evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento (Sez. 4, n. 692 del 14/11/2013, Russo, Rv. 258127). Si è altresì affermato che qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Né può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Sez. 4, n. 46824 del 26/10/2011, Castellano, Rv. 252140)”.
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Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di responsabilità del medico-ginecologo:
Cassazione civile sez. III 28 febbraio 2017 n. 5004
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il ginecologo di fiducia della gestante che riscontri, tramite esame specialistico, un’alterazione cromosomica o altre anomalie del feto, non può limitarsi a comunicare tale dato alla propria paziente, indirizzandola al laboratorio di analisi per ulteriori approfondimenti, atteso che gli obblighi di informazione a suo carico devono estendersi a tutti gli elementi idonei a consentire a quest’ultima una scelta informata e consapevole, sia nel senso della interruzione della gravidanza, che della sua prosecuzione, non sottacendo, in tal caso, l’illustrazione delle problematicità da affrontare; a propria volta, il laboratorio di analisi ed il genetista non possono limitarsi alla verifica della esistenza della anomalia, reindirizzando la paziente al ginecologo di fiducia ma, a specifica richiesta della gestante, devono soddisfare le sue richieste di informazione anche in relazione alle più probabili conseguenze delle anomalie riscontrate.
Cassazione penale, sez. IV, 18/10/2016, n. 53315
In tema di responsabilità medica, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo nei confronti, oltre che del ginecologo, anche delle ostetriche, ritenendo che l’errore commesso dal ginecologo nel trascurare i segnali di sofferenza fetale non esonerava le ostetriche dal dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico, in quanto tale attività rientrava nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe).
Cassazione civile sez. III 10/01/2017 n. 243
In tema di responsabilità medica, qualora risulti che un ginecologo, al quale una gestante si sia rivolta per accertamenti sull’andamento della gravidanza e sulle condizioni del feto, abbia omesso di prescrivere l’amniocentesi, esame che avrebbe evidenziato la peculiare condizione dello stesso (“sindrome di down”), la mera circostanza che, due mesi dopo quella prestazione, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi ad ulteriori accertamenti prenatali non elide l’efficacia causale dell’inadempimento del medico quanto alla perdita della “chance” di conoscere lo stato del feto sin dal momento in cui quell’inadempimento si è verificato; conseguentemente, ove la gestante lamenti di aver subito un danno alla salute psico-fisica, per aver scoperto la condizione del figlio solo al termine della gravidanza, la perdita di quella “chance” deve essere considerata parte del danno ascrivibile all’inadempimento del medico.
Cassazione penale, sez. IV, 30/09/2016, n. 47078
Non sussiste nesso causale tra l’operato del ginecologo ed il decesso di paziente sopravvenuto in esito a rare ed imprevedibili complicanze sopraggiunte successivamente al momento dell’estrazione del feto premorto, allorquando, alla stregua delle risultanze della perizia medico legale d’ufficio, le sequenze cliniche evidenzino un’evoluzione anomala e repentina, tale da frapporsi tra la condotta omissiva del medico e l’evento dannoso, assumendo funzione di autonoma causa, da sola idonea a cagionare quest’ultimo ed, al contempo, debba escludersi, con elevato grado di credibilità razionale, che un evento dannoso sarebbe stato evitato (o si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità) ove la dovuta induzione del parto fosse stata tempestivamente eseguita.
Cassazione penale, sez. IV, 14/06/2016, n. 40703
In tema di responsabilità professionale medica, sussiste a carico del medico ginecologo l’obbligo di seguire con diligenza la gravidanza delle pazienti che a lui si affidano, avendo egli il dovere di assicurare attraverso i concordati controlli periodici, nonché interpretando e valorizzandole sintomatologie riferite, o comunque apprese, che la gravidanza possa giungere a compimento senza danni per la madre e per il nascituro. (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna di un ginecologo che, in presenza di una riferita infezione da varicella con gravi difficoltà respiratorie, aveva omesso di visitare la paziente e di disporre l’immediato ricovero in ospedale).
Cassazione penale, sez. V, 04/07/2014, n. 52411
In tema di responsabilità professionale medica, allorché il sanitario si trova di fronte ad una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non si proceda alla stessa, e ci si mantenga, invece, nell’erronea posizione diagnostica iniziale; ciò, sia nelle situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, sia laddove è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare della situazione già esistente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata per aver giudicato configurabile la responsabilità del ginecologo, che non aveva eseguito un monitoraggio intermittente sulle condizioni del feto, nonostante dai tracciati emergessero segni di sofferenza fetale ai quali era seguita, come sviluppo prevedibile, la morte del nascituro).
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