Responsabilità penale e misure interdittive: è legittima la sospensione dall’esercizio della professione disposta nei confronti del medico omeopata che non prescrive la terapia antibiotica.

Con la sentenza n.27420/2018, depositata il 06 giugno 2018, la IV Sezione Penale della Suprema  Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di responsabilità medica con riferimento all’attività del medico-omeopata destinatario della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della professione medica.

Il caso clinico e lo svolgimento del processo

Secondo l’imputazione provvisoria elevata dal PM presso il Tribunale di Ancona, al prevenuto interpellato dai genitori di un bambino  per una ingravescenza del quadro clinico di otite media acuta, è stato contestato, nella qualità di medico curante del minore, di aver sottostimato, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, tale quadro clinico, tipico di un’infezione locale di elevata gravità, prescrivendo una terapia omeopatica telefonicamente e anche a seguito di visita in ambulatorio; nonché di aver omesso di predisporre approfondimenti diagnostici e prescrivere le necessarie terapie antibiotiche, così determinando il decesso del paziente causato da ascesso cerebrale.

Il GIP in sede su richiesta del PM ha emesso la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della professione medica, in relazione all’imputazione provvisoria a suo carico ai sensi degli artt. 589 e 590 sexies c.p..

Il Tribunale cautelare di Ancona ha rigettato il riesame proposto dall’imputato avverso la predetta ordinanza.

La difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, denunciando travisamento del materiale probatorio raccolto dalla Pubblica accusa sul quale si fonda il fatto incolpativo, nonché violazione di legge con riferimento alla sussistenza dell’esigenza cautelare.

La decisione della Cassazione e il punto di diritto.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la valutazione operata dal Tribunale del riesame.

Per quanto concerne il quadro cautelare, per quanto qui di interesse, si segnala che i giudici di legittimità hanno ritenuto giustificata l’applicazione della misura interdittiva in relazione al particolare modus operandi del prevenuto, “il quale aveva fatto ricorso a diagnosi telefoniche senza visitare il paziente nonostante l’alternanza dei risultati e degli effetti della cura omeopatica e non aveva prescritto la terapia antibiotica neppure dopo la visita, in base ad una scelta ribadita come unica possibile per asserita inefficacia dell’antibiotico”, contrariamente, dunque, ai protocolli sanitari applicabili al caso di specie.

Nel richiamare, quindi, i principi giurisprudenziali di legittimità sedimentati intorno all’art. 274, lett. c) cod. proc. pen., (pericolo di commissione di reati della stessa specie in considerazione delle circostanze del fatto e della personalità dell’imputato), nel caso concreto i  giudici di Piazza Cavour hanno statuito quanto segue: “La valutazione dell’attualità e concretezza del pericolo di reiterazione, astrattamente ipotizzabile, è stata quindi correttamente agganciata alla manifestata pervicacia dell’indagato nell’applicare la terapia già rivelatasi inidonea e, quindi, alla sua erronea convinzione teorica di una superiorità della disciplina omeopatica rispetto alla medicina tradizionale, più che alla prudenza, negligenza o imperizia manifestate nella pratica, comunque certamente apprezzabile sul diverso piano della colpa”.

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Misure interdittive e sanzioni disciplinari nel giudizio contro il professionista sanitario.

Il commento della sentenza n.ro 27420/2018 ha riguardo al tema poco scandagliato delle misure interdittive vale a dire quelle misure cautelari che non incidono né sulla libertà personale del soggetto, né aggrediscono direttamente il suo patrimonio, bensì operano sull’attività del professionista limitandone temporaneamente l’esercizio, con tutte le intuibili conseguenze di ordine economico e di avviamento dello studio professionale.

La misura in questione prevista dall’art. 290 cod. proc. pen. viene proposta dal PM e disposta dal giudice competente con ordinanza la cui impugnazione segue lo schema dettato dal codice di rito per le misure cautelari.

Tuttavia osserva lo scrivente a mero scopo divulgativo e senza alcuna pretesa di esaustività nella trattazione dell’argomento, che la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria in casi analoghi a quello oggetto della pronuncia in commento, concorre con altre forme di responsabilità, segnatamente quella civile e quella disciplinare.

Di quest’ultima fondata sulla presunta violazione delle norme deontologiche che governano la professione si tratta di rado malgrado rivesta un ruolo centrale nella vita del professionista sanitario

Le relative sanzioni sono inflitte dall’Ordine professionale nel cui Albo è iscritto il professionista ed il procedimento è celebrato dinanzi a particolari organismi interni all’Ordine. Il procedimento disciplinare nei confronti dei professionisti sanitari è disciplinato dal D.P.R. n. 221/1950 e dal Regolamento per la esecuzione del D.Lgs. n.233/1946 sulla ricostituzione degli ordini delle professioni sanitarie, il quale ha codificato il potere disciplinare degli Ordini professionali sanitari.

Tra le sanzioni disciplinari previste vi è la sospensione dall’esercizio della professione da uno a sei mesi.

I due provvedimenti sanzionatori appena citati, sebbene identici nella sostanza in quanto finalizzati all’inibizione dell’esercizio della professione, tuttavia differiscono per quanto concerne il profilo dei presupposti processuali necessari per la loro emanazione e per l’attività di difesa tecnica da svolgere.

La misura interdittiva prevista dal codice, come detto, viene disposta dal giudice su richiesta del PM facendo riferimento ai requisiti stabiliti dagli artt. 273 e 274 c.p.p. in tema di gravi indizi di colpevolezza e riguardo le esigenze cautelari e presuppone un procedimento penale già instaurato nei confronti del professionista, quanto meno nella fase delle indagini preliminari.

Diversamente, la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione, viene disposta dall’Organo disciplinare all’esito del relativo procedimento.

Il rapporto tra il procedimento penale e disciplinare in ambito medico

Come già anticipato, il giudizio disciplinare in ambito sanitario, può concorrere con quello penale e procedere parallelamente allo stesso. Invero, l’art. 44 D.P.R. n. 221/1950 prescrive che in caso venga avviato procedimento penale nei confronti di un iscritto all’Albo, costui è sottoposto a procedimento disciplinare per il medesimo addebito, purché l’interessato non sia già stato prosciolto perché il fatto non sussiste o non l’ha commesso.

Sebbene non sia prevista una sospensione necessaria del procedimento disciplinare se concomitante con quello penale, è esperienza dello scrivente che qualora la contestazione elevata in sede disciplinare coincida con la condotta riprodotta nel capo di imputazione formulato dal PM in sede penale, la più completa e vantaggiosa ricostruzione del fatto addebitato in senso favorevole al proprio assistito può discendere più facilmente da una corretta impostazione difensiva in sede di giudizio penale che, indubbiamente, offre più ampi margini di difesa tecnica, soprattutto per i meccanismi di formazione della prova dibattimentale mediante l’esame dei propri consulenti tecnici ed il controesame di quelli indotti dalle altre parti o del perito di ufficio (nominato dal Tribunale). Conseguentemente appare più che opportuno formulare istanza di sospensione del procedimento al collegio giudicante in sede disciplinare in attesa di conoscere le statuizioni del Giudice penale sull’esistenza del fatto, la sua riconducibilità all’azione od omissione dell’imputato, l’esistenza del nesso di causalità tra condotta del medico ed evento di danno (lesioni o morte del paziente) ed infine alla esistenza di colpa professionale (elemento psicologico del reato).

L’opportunità della sospensione del procedimento disciplinare non persegue, quindi, finalità dilatorie, ma tende a far valere l’assoluzione ottenuta in sede penale nell’ambito del procedimento disciplinare per propiziare l’operatività di quanto prescritto dall’art. 653 c.p.p.: “La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

Sui rapporti tra i due procedimenti ed a sostegno della suddetta strategia da seguire è intervenuta la Suprema Corte che pronunciandosi in materia (Cass. civile, SS.UU. 8 marzo 2006, n. 4893) ha statuito che se l’incolpazione disciplinare interessa gli stessi fatti contestati in sede penale il procedimento disciplinare deve essere sospeso in attesa dell’esito del giudizio penale.

Tutto ciò, chiaramente, presuppone che sia il difensore a versare nel fascicolo del procedimento disciplinare gli atti del giudizio penale (segnatamente la richiesta di rinvio a giudizio del PM) dimostrando l’identità del fatto incolpativo e la pregiudizialità della valutazione penale su quella disciplinare, da sospendere.

Alla luce della breve trattazione svolta in tema di illecito astrattamente fonte di  responsabilità penale  disciplinare del medico, nell’ipotesi di attivazione del procedimento a carico del medico, lo scrivente consiglia al professionista sanitario di elaborare insieme al legale di sua fiducia una strategia difensiva globale che, seppure attenta alla valutazione dei principi informatori delle singole branche del diritto interessate e dei diversi riti che ne regolamentano l’applicazione (soprattutto riguardo alle modalità di allegazione dei fatti e di acquisizione della prova), possa ottimizzare ogni risorsa difensiva (ad esempio lo stesso consulente di parte potrà intervenire nei diversi procedimenti) per far rifluire le acquisizioni probatorie favorevoli al medico formate in sede penale o civile nel giudizio disciplinare, opponendosi, al contempo, per quanto possibile, al trasferimento nel procedimento disciplinare di prove acquisite in altra sede processuale senza il contraddittorio con la difesa (ad esempio consulenza tecnica del PM disposta nella fase delle indagini preliminari ovvero una consulenza di parte in sede civile).

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Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di misure interdittive e responsabilità medico-professionale:

Cassazione penale sez. VI  27 gennaio 2016 n. 6275.

È confermata la misura interdittiva della sospensione dai pubblici uffici per sei mesi del direttore sanitario, nonché presidente della commissione ufficio procedimenti disciplinari dell’azienda ospedaliera per omessa assunzione di qualunque iniziativa disciplinare nei confronti del medico che non ha attestato nelle schede operatorie da lui redatte l’attiva partecipazione a due interventi chirurgici di un medico non autorizzato, nonostante le esplicite e specifiche informazioni ricevute.

Cassazione penale sez. IV  03 novembre 2011 n. 42588.

Ai fini dell’applicazione di una misura interdittiva (nella specie sospensione temporanea dall’esercizio dell’attività professionale nei confronti di un medico accusato di omicidio colposo) il giudice deve esaminare ed apprezzare compiutamente le concrete modalità di commissione del fatto costituente reato e tutti gli altri parametri enunciati nell’art. 133 c.p. che possono evidenziare la personalità del soggetto; occorre, inoltre, considerare il grado della colpa, valutando il grado di difformità della condotta dell’autore rispetto alle regole cautelari violate, al livello di evitabilità dell’evento ed al quantum di esigibilità dell’osservanza della condotta doverosa pretermessa.

Cassazione civile sez. II  09 marzo 2010 n. 5727.

La l. 5 febbraio 1992 n. 175, recante norme in materia di pubblicità sanitaria e di repressione dell’esercizio abusivo delle professioni sanitarie, comminando la sospensione dall’esercizio professionale a carico di coloro che effettuino pubblicità senza l’autorizzazione ovvero con mezzi e forme non disciplinati dalla legge, non prevede una contravvenzione amministrativa ma una fattispecie di illecito disciplinare. Deve, pertanto, escludersi che detta legge abbia comportato la tacita abrogazione dell’art. 201 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie), che assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria la violazione delle norme sulla pubblicità in natura sanitaria da esso previste.

 

Cassazione penale sez. V, 10 ottobre 2006 n. 36778. 

In tema di reati di falso, il certificato di morte redatto dal medico necroscopo, delegato dell’ufficiale dello stato civile, è atto pubblico, siccome proveniente da un pubblico ufficiale che attesta fatti di sua diretta percezione (effettività del decesso, eventuali indizi di reato ecc.); mentre, quello redatto dal medico curante in ordine al momento e alle cause della morte – come risultano dall’attività sanitaria espletata prima del decesso – è qualificabile come atto pubblico soltanto se il sanitario opera all’interno di una struttura pubblica e se, con tale atto, concorre a formare la volontà della p.a. in materia di assistenza sanitaria o esercita in sua vece poteri autorizzativi e certificativi: in questi casi, infatti, il medico opera come pubblico ufficiale. Qualora invece il medico curante, nell’immediatezza dell’evento, rilasci il certificato di morte, non destinato all’utilizzazione da parte dell’ufficiale dello stato civile, egli opera come semplice esercente una professione sanitaria, essendo indifferente che egli sia anche un funzionario del Servizio sanitario nazionale. Ne consegue che, in caso di falsità ideologica del certificato, il reato ipotizzabile è quello di cui all’art. 481 c.p., la cui pena edittale è preclusiva dell’applicazione di misure cautelari, anche soltanto interdittive (fattispecie in tema di attestazione, da parte di medici curanti, dell’ora e luogo del decesso di pazienti, invece non sottoposti a visita dopo la morte).

Cassazione civile sez. III  17 gennaio 2001 n. 592.

Dal combinato disposto degli art. 40 e 43 d.P.R. 5 aprile 1950 n. 221 si desume il principio secondo cui l’applicazione della misura cautelativa della sospensione del medico dall’esercizio della professione non osta alla successiva applicazione allo stesso medico della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione, ma non esclude che la misura cautelativa precedentemente applicata non possa essere detratta dalla sanzione disciplinare successivamente inflitta. L’anzidetta detrazione, trattandosi di misure omogenee, risponde ad un più generale principio di ragionevolezza che trova espressione nell’art. 137 c.p.

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