Estorsione ed autoriciclaggio per l’imprenditore che costringe il lavoratore ad accettare una retribuzione inferiore rispetto a quella della busta paga.

Con la recente sentenza n.25979/2018 la II Sezione penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di reati commessi dai soggetti che rivestono posizioni apicali nell’ambito dell’impresa in danno dei lavoratori costretti ad accettare retribuzioni inferiori rispetto a quelle indicate in busta paga.

Il caso e l’imputazione

I due imputati sono stati attinti da incolpazioni concernenti le fattispecie di estorsione in concorso, nelle rispettive vesti di legale rappresentante dell’impresa e di soggetto dotato di poteri gestori, per avere, mediante minaccia di non assunzione o di licenziamento, costretto una molteplicità di lavoratori dipendenti ad accettare retribuzioni inferiori a quelle risultanti dalle buste paga e a sopportare orari superiori a quelli contrattualmente stabiliti, con ingiusto profitto degli imputati e della società dagli stessi gestita in danno dei lavoratori, nonché del delitto di autoriciclaggio continuato per aver destinato il denaro proveniente dal delitto di estorsione alla retribuzione in nero di dipendenti legati loro da particolare rapporto di fiducia.

Alla società di capitali in questione è stato inoltre contestato l’illecito amministrativo dipendente dal delitto di autoriciclaggio previsto dall’art. 25 octies D. Lg.vo 231/2001 per l’avvenuto impiego nell’attività imprenditoriale del danaro proveniente dal delitto di estorsione continuata in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delle somme provento di reato

Lo svolgimento del processo

Il Tribunale cautelare di Brindisi rigettava l’istanza di riesame proposta nell’interesse dei ricorrenti avverso il decreto del Gip del locale Tribunale che aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, di denaro, beni o altre utilità costituenti profitto di reato fino alla concorrenza di euro 25.557,00.

Hanno proposto ricorso per Cassazione sia gli imputati, sia la società attinta da responsabilità amministrativa, deducendo il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del fumus commissi delicti e della violazione di legge in relazione ai reati contestati con l’imputazione provvisoria.

La decisione della Cassazione e il punto di diritto

La Suprema corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili respingendo integralmente le doglianze difensive, ritenendo correttamente motivata l’ordinanza impugnata in ordine al rispetto dei principi dettati in materia di tutela cautelare reale.

Sul punto di diritto relativo alla astratta configurabilità del delitto di estorsione configurabile a carico del datore di lavoro che pone in essere la condotta di costrizione descritta in premessa, si riporta il passaggio motivazionale di interesse:

Le conclusioni cui è pervenuta l’ordinanza impugnata, oltre che adeguatamente argomentate, s’appalesano giuridicamente corrette. Infatti, questa Corte ha in più circostanze affermato che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate (Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; n. 677 del 10/10/2014, Di Vincenzo, Rv. 261553). Nel caso a giudizio legittimamente i giudici della cautela reale, sulla scorta delle dichiarazioni delle dipendenti, hanno ritenuto l’accettazione di condizioni retributive non corrispondenti al lavoro svolto come frutto delle ricorrenti intimidazioni che prospettavano la perdita del posto di lavoro ovvero trasferimenti in sedi disagiate, di fatto costringendo le lavoratrici a rinunziare a parte del salario.

In ordine alla ricorrenza del delitto di autoriciclaggio la Suprema Corte ha statuito quanto segue:

“Quanto al delitto di autoriciclaggio le doglianze difensive s’appalesano analogamente destituite di giuridico fondamento. La norma di cui all’art. 648 ter.1 cod.pen. punisce le attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano la caratteristica specifica di essere idonee ad “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Ai fini dell’integrazione dell’illecito è, pertanto, necessario che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a provare che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto sicché rilevano penalmente tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante.

L’ordinanza impugnata ha legittimamente richiamato al riguardo la motivazione resa dal gip a fronte di doglianza che assumeva la carenza di motivazione del provvedimento genetico, ampiamente giustificativo della ricorrenza dei requisiti costitutivi dell’illecito provvisoriamente ascritto. Infatti, il rastrellamento di liquidità attraverso le condotte estorsive enucleate in incolpazione e, in particolare, per effetto della mancata corresponsione degli anticipi solo formalmente versati in contanti, delle quattordicesime mensilità, del corrispettivo dei permessi non goduti e il successivo utilizzo, secondo le ammissioni dello stesso indagato (omissis), per pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero in favore dei venditori della società integra una condotta di reimmissione dei fondi illeciti nel circuito aziendale, concretamente ed efficacemente elusiva dell’identificazione della provenienza delittuosa della provvista”.

Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di estorsione commessa dal datore di lavoro in danno del dipendente:

Cassazione penale sez. II  14 febbraio 2017 n. 11107 

Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate.

Cassazione penale sez. II  14 aprile 2016 n. 18727 

Integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione di debolezza dei dipendenti a causa del difficile contesto occupazionale, anteriormente alla conclusione del contratto e durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, impone al lavoratore di accettare condizioni di lavoro deteriori a fronte della minaccia di mancata assunzione o di licenziamento (nella specie, le condizioni imposte riguardavano, in particolare, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni in bianco, la corresponsione di una retribuzione inferiore a quella risultante dalla busta paga, nonché il prolungamento non dichiarato dell’orario di lavoro).

Cassazione civile sez. lav.  17 febbraio 2015 n. 3136 

In tema di licenziamento per giusta causa, anche una condotta estranea all’esecuzione della prestazione lavorativa può assumere rilievo allorché sia di gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario fra le parti, avuto riguardo, fra l’altro, alla natura dell’attività svolta dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente postale a seguito di patteggiamento per i reati di usura ed estorsione, attribuendo rilievo al requisito di affidabilità richiesto per l’espletamento di un servizio pubblico, ancorché in regime privatistico).

Cassazione penale sez. II  10 ottobre 2014 n. 677 

Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11, c.p., il rapporto o contratto di lavoro rientra nell’ambito delle “relazioni di prestazione d’opera”. (Fattispecie in tema di estorsione commessa dal datore di lavoro nei confronti di lavoratori subordinati).

Cassazione penale sez. II  27 novembre 2013 n. 50074 

Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi o ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento.

Cassazione penale sez. II  20 dicembre 2012 n. 3426 

Deve ritenersi integrato il delitto di estorsione in presenza della condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione di minorata difesa del lavoratore, lo costringa, con la minaccia anche larvata di licenziamento, ad accettare condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, per massimizzare il suo profitto attraverso un ingiusto danno patrimoniale al dipendente. Danno patrimoniale che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente: in tal caso, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici – nel caso di specie la durata e le modalità della prestazione – nel modo e nelle forme ritenute più confacenti, opportune nel rispetto della legge e dei contratti collettivi di lavoro (nella specie, il datore di lavoro aveva minacciato di licenziamento i propri dipendenti se non avessero aderito alle sue richieste volte ad alterare, durante il viaggio, il cronotachigrafo, attraverso l’apposizione di un magnete nel sensore del cambio, in modo da far rilevare come fermo il mezzo in realtà viaggiante senza però il rispetto delle previste soste di riposo degli autisti).

Cassazione penale sez. II  20 dicembre 2011 n. 4290 

Configura il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro il quale costringa i propri lavoratori ad accettare la corresponsione di retribuzioni non adeguate al lavoro svolto, dietro esplicita minaccia di un successivo licenziamento (nella specie, la Suprema Corte, confermando la sentenza di merito, ha rilevato gli elementi oggettivi e soggettivi del reato nel comportamento del datore di lavoro il quale, dopo avere corrisposto la retribuzione prevista dal c.c.n.l. di riferimento, ricevendo contestuale sottoscrizione di quietanza di pagamento, costringeva il dipendente – dietro minaccia di licenziamento e prospettando il concreto pericolo della disoccupazione – a restituirgli in contanti una parte della somma).

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