Condannato per lesioni colpose il chirurgo negligente che ha operato il ginocchio sbagliato comunque interessato da altra patologia.
La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza n.41368/2018, depositata il 25.09.2018, è tornata ad affrontare la materia della responsabilità medica relativamente al discusso profilo della qualificazione dell’intervento chirurgico quale lesione personale.
Il caso de quovedeva imputato di lesioni colpose un chirurgo, dirigente del reparto di ortopedia, per aver sottoposto una paziente ad intervento inutile di meniscectomia al ginocchio sinistro invece che al destro, sede della patologia diagnosticata alla stessa.
La difesa del prevenuto deduceva nel ricorso per cassazione che l’intervento non autorizzato sarebbe dipeso da un’analisi in sede operatoria del ginocchio sinistro della paziente, comunque interessato da grave patologia; deduceva, altresì, che l’intervento sarebbe stato corretto sul piano tecnico e con esito fausto, non potendo, pertanto, ascriversi all’imputato il reato per avere questi agito per scopi terapeutici.
La Suprema corte ha dichiarato inammissibile il ricorso giudicandolo manifestamente infondato per le ragioni sintetizzate nella parte motiva della sentenza che si riproduce per quanto di interesse:
“La tematica del trattamento medico-chirurgico effettuato in mancanza di un valido consenso informato o in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso, oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, è argomento vasto, che ha suscitato ampie riflessioni in dottrina e giurisprudenza, come si evince dalla lettura della stessa motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, in cui si rinviene un articolato excursus sui vari orientamenti succedutisi nei tempo. Per quanto concerne il particolare aspetto evidenziato dalla difesa, occorre rilevare come all’esito della complessa e articolata disamina della questione, il Supremo consesso abbia espresso il principio così massimato: “Non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis”, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso” La prima considerazione ricavabile dalla lettura della motivazione della pronuncia, condensata nella massima riportata, è che la pratica medico-chirurgica non assistita dal consenso del paziente, per non trasmodare nell’illecito penale della lesione personale o della violenza privata, deve essere sempre teleologicamente orientata ad apportare un beneficio alla salute del paziente, essendo la preservazione di tale bene l’aspetto in relazione al quale è fornita copertura costituzionale alla legittimazione dell’atto medico.
A questo fine, si legge nella citata pronuncia che: «Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento, non potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute. Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento “coatto”; sebbene, proprio perché la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole dell’arte.E’, quindi, in questo contesto che andrà verificato l’esito, fausto o infausto, dell’intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di “malattia” di cui si è detto». Ritornando al caso in esame, come illustrato dalla Corte territoriale, la possibilità di costruire il caso in esame secondo la logica di un volontario e necessario ampliamento dell’intervento terapeutico, necessitato dalla “scoperta” in camera operatoria di una preoccupante patologia al ginocchio sinistro, è escluso dalla mancanza di elementi atti a rivelare la volontarietà dell’intervento (a fronte di una serie di circostanze che invece comprovano una negligente disattenzione nella individuazione della parte del corpo su cui intervenire) e la mancanza di miglioramento della salute della paziente che, operata ad un arto diverso da quello che le cagionava sofferenza, non ha riportato alcun beneficio dall’operazione chirurgica.
Muovendo da tali premesse ed alla luce dei principi richiamati, risulta evidente come la paziente abbia riportato una “lesione”, avendo l’intervento operatorio fenomenicamente determinato una alterazione anatomica, accompagnata da una compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo, non determinata da finalità terapeutiche (essendo frutto di un errore scaturito da negligenza) e non caratterizzata da un miglioramento delle condizioni di salute. Sulla base di tali considerazioni, diventa quindi del tutto irrilevante l’ulteriore notazione difensiva secondo la quale l’intervento sarebbe perfettamente riuscito”.
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Riferimenti normativi
Lesioni personali colpose art. 590 c.p.:
“Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309.
Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme [sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle] per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena per lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pensa della reclusione non può superare gli anni cinque.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale”.
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Quadro giurisprudenziale di riferimento delle più recenti pronunce di legittimità rese in materia di responsabilità penale dell’esercente professioni sanitarie:
Cassazione penale sez. IV 19 luglio 2018 n. 39733
In tema di responsabilità medica, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio. Per converso, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui (nella specie, è stata ravvisata la responsabilità del secondo operatore – in cooperazione colposa con il primo operatore – perché, durante un intervento in laparoscopia a un rene, avendo ricevuto l’incarico di direzionare la telecamera, non si era avveduto, per negligenza, che il primo operatore anziché limitarsi alla rimozione di una cisti splenica aveva erroneamente realizzata una nefrectomia con asportazione del rene in paziente monorene).
Cassazione penale sez. IV 19 aprile 2018 n. 36723
In tema di responsabilità medica, qualora il fatto sia stato commesso sotto la vigenza dell’ articolo 3 comma 1 del decreto legge 158/2012 ( Decreto Balduzzi ), in presenza di errore dovuto ad imperizia non grave ed intervenuto nella fase esecutiva delle raccomandazioni previste dalle linee guida adeguate al caso specifico, “la suddetta previsione deve essere considerata più favorevole di quella di cui all’ articolo 590-sexies del codice penale (introdotto con legge n. 24/2017 ), dal momento che integra una parziale abolitio criminis e non una mera causa di non punibilità”.
Cassazione penale sez. IV 23 gennaio 2018 n. 22007
In tema di colpa medica, nel caso di intervento operatorio svolto in equipe, il chirurgo è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, che non è limitata all’ambito strettamente chirurgico, ma si estende al successivo decorso post-operatorio, con la conseguenza che è ravvisabile la sua responsabilità ove, terminato l’intervento, si sia allontanato senza avere affidato il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti, in grado di seguire il decorso post operatorio (In applicazione di tale principio la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva assolto dal reato di omicidio colposo due chirurghi che erano intervenuti in ausilio dei colleghi meno esperti sostituendosi agli stessi nella conduzione dell’intervento, e si erano poi allontanati, con successivo decesso della paziente per non essere stata trasferita in una struttura provvista di rianimazione).
Cassazione penale sez. un. 21 dicembre 2017 n. 8770
In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell’ art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24 – pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia – non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene.
Cassazione penale sez. IV 21 dicembre 2017 n. 2354
In applicazione del principio di affidamento, per individuare la responsabilità penale del singolo sanitario che presta il proprio intervento in equipe medica, è necessario verificare l’incidenza avuta dalla sua condotta nella causazione dell’evento lesivo.
Cassazione penale sez. IV 20 aprile 2017 n. 28187
Tenuto conto che l’art. 3 del c.d. decreto Balduzzi è stato abrogato e che l’interpretazione della norma aveva portato a ritenere che in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica si fosse verificata la decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve, la più severa normativa della legge n. 24 del 2017 (legge Gelli Bianco) che nulla prevede in tal senso ai sensi dell’art. 2 c.p. troverà applicazione solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma.
Cassazione penale sez. IV 11 ottobre 2016 n. 44335
Nel reato di lesioni personali colpose provocate da responsabilità medica, la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell’insorgenza della malattia “in fieri”, anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente.
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