Non è giustificata la misura del divieto di esercizio della professione applicata al commercialista se le esigenze cautelari si fondano solo sulla gravità del danno all’Erario e sui precedenti penali.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza n. 406/2019 – depositata l’08.01.2019, resa dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione in materia cautelare, in esito al ricorso di un commercialista che aveva impugnato l’ordinanza del Tribunale del riesame impositiva nei sui confronti la misura del divieto di esercizio della professione in relazione all’imputazione per una serie di reati fiscali commessi in concorso.

Il Tribunale del riesame di Bologna disponeva la sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari, disposta dal Gip in sede nei confronti dell’indagato, con la misura del divieto di esercizio e della professione di dottore commercialista per la durata di mesi dodici, ritenuta, comunque necessaria a soddisfare le esigenze cautelari.

Con l’incolpazione provvisoria, venivano contestati al professionista – consulente fiscale, i reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e art. 4 del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 (dichiarazione infedele), in concorso con l’amministratore di fatto e di diritto della società per la quale aveva prestato attività professionale, in quanto, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, concorrevano, nella loro rispettiva qualità, ad indicare nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi inesistenti; per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 10 quater del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 (indebita compensazione), perché, nelle medesime qualità, non versavano le imposte dovute a fini Iva, Ires e altri tributi, utilizzando in compensazione crediti inesistenti per € 127.315,42.

Per quanto riguarda la posizione del professionista, il Tribunale ravvisava i gravi indizi di colpevolezza e il pericolo di recidiva, sul rilievo del rilevante danno all’erario, della condotta in spregio alle norme deontologiche, che regolano l’attività di dottore commercialista, in uno con la circostanza che l’indagato aveva, già in passato, dimostrato di offrire ausilio ai propri clienti impegnati in attività illecite, circostanze  tutte che evidenziavano, “un intenso pericolo di recidiva”, tenuto conto che l’indagato aveva continuato ad esercitare l’attività professionale di dottore commercialista,

L’indagato proponeva unico motivo ricorso afferente alla sussistenza del pericolo concreto e attuale di recidiva, che la Suprema corte ha accolto, annullando la sentenza impugnata, rinviando al giudice cdi merito per nuovo esame.

Di seguito si riporta il passaggio della motivazione di interesse per il presente commento:

“… la valutazione sul rischio di reiterazione criminosa non può atteggiarsi in termini di mera potenzialità del pericolo, in ipotesi desumibile da circostanze distanti nel tempo o dalla gravità del reato posto a base del titolo restrittivo, ma deve fondarsi su dati concreti ed oggettivi attinenti al caso concreto. La valutazione prognostica, in cui si sostanzia il pericolo di attualità del pericolo di reiterazione del reato, richiede, quindi, una valutazione circa la probabile ricaduta nel delitto, fondata sia sulla permanenza dello stato di pericolosità personale dell’indagato, dal momento di consumazione del fatto sino a quello in cui si effettua il giudizio cautelare, desumibile dall’analisi soggettiva della sua personalità, sia sulla presenza di condizioni oggettive ed “esterne” all’accusato, ricavabili da dati ambientali o di contesto che possano attivarne la latente pericolosità, favorendo la recidiva. Tale valutazione prognostica non richiede, tuttavia, la previsione di una “specifica occasione” per delinquere (Sez. 5, n. 33004 del 03/05/2017, Cimieri, Rv. 271216; Sez. 2, n. 11511 del 14/12/2016, Verga, Rv. 269684; Sez. 2, n. 44946 del 13/9/2016, Draghici, Rv. 267965; Sez. 2, n. 47891 del 7/9/2016, Vicini, Rv. 268366). Esclusa la ricerca della “occasione” prossima per la commissione di nuovi reati, come sostiene il ricorrente, nondimeno la valutazione del concreto e attuale pericolo di recidiva richiede un giudizio valutativo, nei termini sopra esposti, dal quale desumere la concreta ricaduta nel delitto in termini di alta probabilità.

(…) Seppur non occorra, secondo l’indirizzo ermeneutico condiviso dal Collegio, l’indagine sulla certezza dell’occasione per delinquere, rileva il Collegio come il pericolo di recidiva non possa essere collegato al mero svolgimento dell’attività professionale di dottore commercialista (pag. 21), essendo attività professionale di per sé lecita, in assenza di ulteriore apprezzamento, sulla scorta di elementi obiettivi, della misura in cui la stessa sia stata “messa al servizio” per fini illeciti.

(…) Sotto un primo profilo, il concreto pericolo di recidiva non può essere tratto dalla gravità del danno cagionato all’erario; parimenti, non è di per sé significativo il riferimento alla condotta contra ius in spregio alle regole deontologiche (pag. 20), circostanza questa che connota la materialità del fatto di reato, ma non la prognosi di recidivanza.

Residua l’aver anche in passato dato prova di essere pronto ad offrire ausilio ai propri clienti impegnati in attività fraudolente in danno dell’erario e lo svolgimento tuttora dell’attività professionale. Anche sotto questo profilo, la motivazione non coglie nel segno ed è carente.

Oltre alle considerazioni svolte dal ricorrente in merito al rilievo attribuito alla sentenza di non doversi procedere per prescrizione, emessa nell’ambito di altro procedimento penale da altra autorità giudiziaria, rileva, il Collegio, come la circostanza che il (omissis) era stato coinvolto in fatti analoghi, tradisce, nei fatti, la dimostrazione dell’attualità del pericolo di recidiva. Il fatto di avere, in passato dato prova di essere pronto a commettere reati tributari, non autorizza a ritenere concreto ed attuale il pericolo di recidiva.

La motivazione appare, dunque, assertiva e carente sotto il profilo dell’attualità e concretezza nella dimensione temporale del pericolo di recidivanza, in termini di elevata probabilità di ricaduta nel delitto, non potendo essere fondata sullo svolgimento dell’attività professionale di dottore commercialista, e sull’aver in passato (anno 2009) già dimostrato di essere aduso ad elargire ausilio a terzi impegnati nella commissione di condotte fraudolente”.

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Riferimenti normativi

Art. 4. D.lgs. n. 74/2000.  Dichiarazione infedele  

  1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: 
  2. a)  l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; 
  3. b)  l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. 

1-bis.  Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 

1-ter.  Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b). 

 

Art. 10-quater. D.lgs. n. 74/2000.  Indebita compensazione 

  1. E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
  2. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.

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Giurisprudenza recente in materia di dichiarazione infedele:

Cassazione penale, sez. III , 10/05/2018 , n. 26274

La ritenuta sussistenza del “fumus commissi delicti” ai fini dell’adozione di una misura cautelare reale in relazione al reato di dichiarazione infedele previsto dall’ art. 4 d.lg. 10 marzo 2000 n. 74 ben può fondarsi, ove trattisi di redditi derivanti dall’esercizio di professioni, sulla presunzione legale che costituiscano “ricavi”, ai sensi dell’ art. 32 d.P.R. n. 600/1973 , (pur dopo la modifica apportata dall’ art. 7 quater, comma 1, lett. a, d.l. n. 193/2016 , conv. con modif. in l. n. 225/2016 ), quelli risultanti da versamenti sui conti correnti del professionista che quest’ultimo non sia in grado di giustificare diversamente, nulla rilevando in contrario la parziale dichiarazione di incostituzionalità del citato art. 32, pronunciata con sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014 , avendo essa avuto ad oggetto l’equiparazione tra attività imprenditoriale ed attività professionale solo limitatamente ai prelevamenti dai conti correnti e non ai versamenti.

 

Cassazione civile , sez. trib. , 04/04/2018 , n. 8238

La discrepanza tra il reddito dichiarato dal contribuente ed il risultato degli studi di settore non può rappresentare, di per sé, un elemento presuntivo connotato da gravità, precisione e concordanza e giustificare di conseguenza un avviso di accertamento ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600. [Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza della commissione tributaria regionale, che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle Entrate, aveva rideterminato il reddito dichiarato dal contribuente solo sulla base dell’esiguità dei ricavi dichiarati e dell’entità della discrepanza con gli studi di settore, senza motivare l’abnormità dello scarto rispetto al valore accertato (pari a circa dieci volte il reddito dichiarato) attraverso l’individuazione delle componenti della supposta infedele dichiarazione].

Cassazione penale , sez. III , 17/01/2018 , n. 41260

In materia di reati tributari, il carattere residuale del reato di dichiarazione infedele, di cui all’ art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 , esclude il concorso con il delitto di frode fiscale, previsto dall’ art. 2 d.lg. n. 74 del 2000, quando la condotta materiale abbia ad oggetto la medesima dichiarazione, mentre non opera nel caso in cui siano contestate condotte diversa, una per le omissioni di elementi attivi del reddito e l’altra per elementi passivi inesistenti.

Cassazione penale , sez. III , 26/10/2017 , n. 9378

Non è penalmente perseguibile un’operazione finalizzata esclusivamente a conseguire un indebito vantaggio fiscale relativa a operazioni economiche reali. Il giudice, prima di affermare la tesi contraria, deve verificare che le operazioni non siano state realizzate ovvero siano riferite a soggetti fittiziamente interposti. Lo precisa la Cassazione accogliendo il ricorso di un socio di due società condannato per omessa dichiarazione degli utili percepiti da una delle due società e i corrispettivi della cessione delle proprie quote. Per la Corte, in base al nuovo articolo 10-bis della legge 212/2000 secondo cui le operazioni meramente abusive non danno luogo a illeciti penali tributari, non è più configurabile la dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali.

Cassazione penale, sez. III , 19/10/2017 , n. 4733

In tema di reati tributari, la confisca può essere adottata anche a fronte dell’impegno assunto dal contribuente di pagamento all’erario, producendo, tuttavia, effetti solo ove si verifichi l’evento futuro e incerto costituito dal mancato pagamento del debito. Precisando ciò, la Cassazione ha accolto il ricorso contro l’applicazione della misura ablatoria su tutta la somma dovuta per dichiarazione infedele, malgrado la totale estinzione del debito fosse arrivata prima della sentenza di patteggiamento.

Cassazione penale, sez. III , 22/03/2017 , n. 30686

Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di dichiarazione infedele dei redditi di cui all’ art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, come delineato a seguito delle modifiche introdotte dall’ art. 4 , comma 1, lett. a) , del D.Lgs. n. 158/2015, deve ritenersi integrato dalla presenza alternativa di elementi positivi della condotta punibile – quali: l’annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale; l’ indebita riduzione dell’imponibile tramite l’indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (non più fittizi); la sottofatturazione , ovvero l’indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale – oltre che dalla presenza di elementi negativi, nel senso che la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti non sia il frutto della violazione della regola cronologica relativa all’esercizio di competenza o della non inerenza.

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