Dieta, prescrizione di farmaci ed omicidio colposo: risponde penalmente il medico che non valuta la pericolosità dei farmaci somministrati al paziente.
Si segnala ai lettori del blog l’interessante sentenza di legittimità n.8086/2019, depositata il 25.02.2019, in tema di responsabilità penale dei professionisti sanitari.
La pronuncia in commento riguarda la condotta omissiva di un medico (endocrinologo e diabetologo), ritenuto nel doppio grado di merito colpevole del reato a lui ascritto, per aver omesso di valutare la pericolosità di un trattamento farmacologico somministrato su di una paziente, tra l’altro disattendendo specifici divieti di legge.
L’imputazione penale ed i giudizi di merito.
All’imputato, medico endocrinologo e diabetologo, veniva contestato di aver prescritto la fendimetrazina nonostante il divieto introdotto dal D.M. del 24/01/2000 e, comunque, per aver violato le disposizioni contenute nel D.M. 18/09/1997 in punto di durata del trattamento farmacologico (prescrivibile per un periodo non superiore a tre mesi); per averlo prescritto pur conoscendo i rischi che lo stesso poteva comportare e per aver somministrato alla paziente, unitamente alla fendimetrazina, altre sostanze farmacologicamente attive senza considerare lo stato psico-fisico della paziente (che aveva perso circa 7 kg di peso al mese), omettendo, altresì, di acquisire le informazioni amnestiche e di disporre accertamenti clinici strumentali per valutare l’opportunità del trattamento farmacologico prescritto.
La Corte di appello di Roma confermava la sentenza con cui il Tribunale capitolino, all’esito del celebrato giudizio ordinario, aveva dichiarato l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 589 cod. pen., condannandolo, per l’effetto, alla pena di anni due di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.
L’impugnazione di legittimità ed il principio di diritto.
Contro la sentenza della Corte distrettuale, la difesa del sanitario interponeva ricorso per Cassazione articolando un unico motivo per denunciare la falsa/erronea applicazione della legge penale con riferimento al nesso eziologico tra la morte e la terapia prescritta, nonché l’assenza della colpa professionale i capo al giudicabile.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso.
Di seguito si riportano i più significativi passaggi in diritto estratti dal tessuto motivazionale della sentenza in commento.
- Sul nesso causale e sulle risultanze della perizia prodotta nel giudizio di merito
“La Corte distrettuale ha sostanzialmente confermato i fondamenti del percorso argomentativo seguito dal Tribunale, anche attraverso ampi richiami della sentenza di primo grado sulla base del consolidato principio giurisprudenziale dell’integrazione reciproca tra la sentenza di primo grado e quella di appello che si pronunci in conformità. Ha premesso che, in sede di accertamento della causa della morte della (omissis), è del tutto irrilevante la circostanza, enfatizzata dalla difesa, circa l’assenza nella letteratura scientifica di una casistica significativa di decessi attribuiti all’assunzione della fendimetrazina, atteso che la mancanza di detta casistica non significa ex se che la fendimetrazina non sia una sostanza potenzialmente letale ovvero che, nel caso concreto, non abbia determinato la crisi aritmica che ha condotto al decesso della donna. La consulenza peritale, richiamata in sentenza, in particolare chiariva che: gli effetti nocivi della fendimetrazina sulla circolazione sanguigna e sull’attività cardiaca sono quelli tipici dei farmaci simpaticomimetici (…); gli aggregati piastrinici riscontrati in sede autoptica costituivano conferma che la morte costituiva la fatale evoluzione di processi innescatisi subito prima del decesso e connessi all’assunzione della fendimetrazina, atteso che i farmaci simpaticomimetici hanno anche la caratteristica di essere proaggreganti; anche gli altri medicinali prescritti dall’imputato potevano aver avuto un ruolo nel determinismo della morte, amplificando gli effetti nocivi della fendimetrazina (…); l’assunzione prolungata della fendimetrazina, anche in associazione con le altre sostanze, aveva aumentato il rischio di una crisi aritmica in ragione della condizione fisica della paziente, obesa e quindi già esposta a crisi ipertensive; a loro volta, anche gli altri, ulteriori, farmaci prescritti alla (omissis) potevano aver avuto un ruolo concausale proprio in quanto assunti in associazione con la fendimetrazina.
I periti – peraltro risentiti nel giudizio di appello – chiarivano che erano state verificate altre, possibili, cause di morte, ipotizzate dai consulenti dell’imputato e dalla parte civile, le quali, pur esaminate, erano state escluse in forza degli esiti dell’esame autoptico e degli esami istologici.
(…) Quanto poi alla pretesa innocuità della fendimetrazina (ove assunta in dosi terapeutiche), la Corte di appello ricorda che i periti hanno più volte ribadito che la pericolosità di tale farmaco era attestata da copiosa letteratura scientifica riferita alla categoria dei farmaci simpaticomimetici cui la prima appartiene e come tale affermazione sia del tutto coerente con i decreti ministeriali succedutisi negli anni che proprio in ragione della pericolosità di questa sostanza, avevano limitato sino a vietarle l’utilizzo di specialità medicinale o di preparazioni magistrali a base di fendimetrazina. Proprio a ragione di questa pericolosità, sul medico, portatore di una posizione di garanzia rispetto al paziente che a lui si affida, grava un obbligo di adeguata gestione del rischio che, nel caso di specie, è stato del tutto disatteso.
(…) La pronunzia in disamina ritiene altresì che il giudizio controfattuale riscontri l’esistenza del nesso di condizionamento. L’evento, infatti, risultava evitabile: secondo i periti la paziente «con elevato grado di probabilità logico-razionale» non sarebbe deceduta ove non avesse assunto le sostanze prescritte dall’imputato, «nelle forme e nella cronologia al dunque registrate», attesa l’assenza di «chiavi di lettura alternative a quella complessivamente identificata come riconducibile al meccanismo di azione proprio dei simpaticomimetici […]». Poiché il nesso causale può ritenersi provato ogni qual volta, sulla base di leggi di copertura, possa affermarsi che, se il soggetto si fosse astenuto da una data azione quell’evento non si sarebbe verificato (reato commissivo proprio) ovvero che se il soggetto, avendone l’obbligo, avesse agito secondo il comando, l’evento sarebbe stato impedito – la sentenza di appello rileva come il giudice di primo grado, basandosi su regole di esperienza acquisite in giudizio e fondate su dati scientifici forniti dalla pratica medica, sia pervenuto alla condivisibile convinzione che, se il (omissis) avesse agito con la dovuta diligenza, se cioè non avesse somministrato il trattamento terapeutico (vietato) o comunque se avesse rispettato la durata massima di tre mesi prevista dal decreto ministeriale previgente al divieto introdotto con il D.M. del 2000 (con ciò evitando che la (omissis) per oltre cinque mesi venisse sottoposta ad uno stimolo iperadrenergico costante) e, ancora, se avesse prescritto accertamenti clinici prima e durante il trattamento, l’evento morte non si sarebbe verificato”.
- Il ragionamento logico-giuridico che deve seguire il giudice nella ricostruzione del rapporto eziologico tra la condotta omissiva e l’evento di danno.
“La valutazione del giudice, peraltro, si colloca all’interno dell’elaborazione giurisprudenziale formatasi a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del luglio dell’anno 2002 (Sez. U, sent. n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138). Poiché il ricorrente ne ha fatto menzione, occorre allora rammentare brevemente che le Sezioni Unite propongono un modello dell’indagine causale che integra abduzione ed induzione, cioè l’ipotesi (l’abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l’induzione). Induzione ed abduzione s’intrecciano dialetticamente: l’induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa (Sez. 4, sent. n. 15282 del 07/03/2008, Vavassori e altri, Rv. 239604). La prospettiva è quella di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale.
(…)Dunque, chiosando le Sezioni Unite, si può affermare che l’elevata probabilità logica non esprime altro che la forte corroborazione dell’ipotesi sulla base delle concrete acquisizioni probatorie disponibili. Si tratta di un giudizio che scaturisce da un impegnativo modello d’indagine fondato su un rigoroso atteggiamento critico e su un serrato confronto tra l’ipotesi e i fatti: la congruenza di un’ipotesi ricostruttiva non dipende dalla coerenza formale, né dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo meramente deduttivo, bensì dal confronto con i fatti espressi da una situazione data, che possono confermarla o falsificarla. Conclusivamente, la corroborazione dell’ipotesi è fondata sulla affidabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull’evidenza probatoria, disponibile e coerente con l’ipotesi stessa; nonché, infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro-ipotesi. Solo in un quadro fattuale così profondamente investigato ed interrogato può esservi razionalità dell’ipotesi e la coerenza logico-argomentativa dell’enunciato diviene oggettiva dimostrazione di “verità” processuale. Insomma, solo la strenua ricerca delle più ampie informazioni scientifiche e probatorie e la rigorosa adesione ad esse può fondare il giudizio d’imputazione causale. Infine, alla luce delle censure proposte evocando frammenti delle valutazioni espresse dai periti, occorre chiarire che la difficile ponderazione di cui si parla, che si muove tra le categorie giuridiche, le informazioni scientifiche e le acquisizioni fattuali è infine affidata alla responsabilità del giudice che, naturalmente, al fine di acquisire le conoscenze tecniche e scientifiche necessarie alla comprensione degli accadimenti, si avvarrà della collaborazione di periti e consulenti. Insomma, il giudizio di corroborazione dell’ipotesi sul fatto è rimesso per intero al giudice e non agli esperti intervenuti nel processo che, talvolta, comprensibilmente, non hanno una conoscenza compiuta delle sofisticate categorie teoriche che regolano la causalità giuridica”.
- L’elemento psicologico del reato.
“La Corte di appello ha pertanto concluso nel senso che la condotta dell’imputato consente di affermare che la morte della (omissis) sia a lui imputabile, essendo l’evento non solo evitabile, come si è più sopra accennato, ma altresì prevedibile proprio in ragione dell’anzidetta pericolosità del farmaco e dalla presenza nella paziente di fattori di rischio che aumentavano la possibilità di insorgenza di effetti collaterali, anche mortali, derivanti dall’assunzione dei farmaci prescritti.La pericolosità della fendimetrazina, afferma condivisibilmente la sentenza, era stata del resto rappresentata nei decreti ministeriali che, nel corso degli anni, avevano dettato limiti e divieti nella prescrizione e nella preparazione di prodotti a base di questa sostanza, decreti tutti finalizzati alla protezione degli individui dall’uso di farmaci rischiosi per la salute. L’evento, dunque, ha costituito la concretizzazione del rischio che la cautela era chiamata a governare. Dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa.
È noto poi, come ricordano le sentenze di merito, che non si richiede che la prevedibilità riguardi la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più dettagliate articolazioni ma la classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca, (Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri. Rv. 261106) Oltre alle violazioni specificamente indicate nel capo di imputazione, è poi la pericolosità del trattamento con la fendimetrazina – per di più associata ai farmaci dianzi indicati- a venire in rilievo nella motivazione della Corte romana di tal che le osservazioni del ricorrente – sul fatto che il divieto di somministrazione fosse da intendersi quale semplice divieto di dispensazione desunto dal fatto che in altri casi il legislatore è intervenuto con maggior determinazione; che non era stata attivata la procedura relativa a sostanze per le quali sia insorto allarme; che in altri paesi l’utilizzo del farmaco non subisce limitazioni – appaiono fuorvianti ed esulanti dal tema per cui il (omissis) è chiamato a rispondere. In relazione alla scelta del medico di somministrare un farmaco potenzialmente pericoloso, esattamente la sentenza impugnata richiama il principio coniato da questa Corte per il quale egli non va esente da colpa se ometta un’attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi ed ometta il costante controllo, nel corso della cura, delle condizioni del paziente. E che questo monitoraggio non vi sia stato risulta si evince dalle stesse osservazioni del ricorrente laddove afferma che la signora (omissis) proseguì il trattamento con la fendimetrazina indipendentemente dalla sua prescrizione”.
*****
Riferimenti normativi
Art. 589 c.p. Omicidio colposo
Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.
Se il fatto è commesso nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena è della reclusione da tre a dieci anni.
[Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:
- 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;
- 2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.] (abrogato)
Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici .
*****
Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di rapporto causale nell’ambito della responsabilità colposa per morte o lesioni personali dei professionisti sanitari:
Cassazione penale sez. IV 30 marzo 2016 n. 18780
La responsabilità penale di ogni componente di una équipe medica per un evento lesivo occorso ad un paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito all’équipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, anche in una prospettiva di verifica dell’operato degli altri nei limiti delle proprie competenze e possibilità.
Cassazione penale sez. IV 10 marzo 2016 n. 15493
In tema di omicidio imputabile a colpa medica, non è censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, all’esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, ne privilegi una, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri e essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di non dover seguire. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che, pur ravvisando l’errore del pediatra, che aveva sottovalutato l’urgenza di un intervento sanitario da eseguirsi in ambiente ospedaliero, ha escluso la sussistenza di un nesso causale con il decesso della paziente, la cui rapida ed irreversibile compromissione dei parametri vitali era stata dovuta a plurimi e gravi errori dell’anestesista rianimatore).
Cassazione penale sez. IV 14 febbraio 2013 n. 18573
In tema di omicidio, sussiste il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di contrafattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva. (Fattispecie nella quale il sanitario di turno presso il pronto soccorso non aveva disposto gli accertamenti clinici idonei ad individuare una malattia cardiaca in corso e, di conseguenza, non era intervenuto con una efficace terapia farmacologica di contrasto che avrebbe rallentato significativamente il decorso della malattia, così da rendere utilmente possibile il trasporto presso struttura ospedaliera specializzata e l’intervento chirurgico risolutivo).
Cassazione penale sez. V 15 dicembre 2015 n. 9831
Anche nei reati omissivi impropri è necessario raggiungere la certezza processuale in ordine alla sussistenza del nesso di causalità: per far ciò, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la “causa materiale” dell’evento.
Cassazione penale sez. IV 06 marzo 2012 n. 17758
In tema di responsabilità a titolo di colpa per condotta omissiva, la sussistenza del nesso di causalità può essere affermata o esclusa, oltre che sulla base di dati empirici o documentali di immediata evidenza, anche con ragionamento di deduzione logica purché fondato su elementi di innegabile spessore, correttamente esaminati secondo le “leges artis”, e può affermarsi quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa sostenere in termini di “certezza processuale”, ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta omissiva a determinare l’evento lesivo, facendo riferimento sia a dati statistici sia ad altro materiale probatorio. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato, ai soli fini civili, la sentenza con cui il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto sussistente il nesso causale con riferimento al giudizio controfattuale basato esclusivamente su dati statistici senza considerare l’interferenza di decorsi causali alternativi).
Cassazione penale sez. IV 21 giugno 2007 n. 39594
Nei reati omissivi impropri, la sussistenza del nesso di causalità non può essere affermata sulla base di una valutazione di probabilità statistica, risultando invece necessaria la formulazione di un giudizio di probabilità logica che consenta di ritenere l’evento specifico riconducibile all’omissione dell’agente al di là di ogni ragionevole dubbio. (Fattispecie in tema di colpa professionale medica in cui la Corte ha ritenuto corretta la valutazione compiuta dal giudice d’appello in merito all’insussistenza della prova certa del collegamento causale tra le omissioni diagnostiche e terapeutiche attribuite al sanitario e il decesso di un paziente, la cui situazione immunitaria assolutamente insufficiente lasciava legittimamente dubitare delle possibilità salvifiche degli accertamenti clinici non tempestivamente effettuati).
Cassazione penale sez. un. 10 luglio 2002 n. 30328
Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. La conferma dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale non può essere dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA