Il gestore di un blog può concorrere nel delitto di diffamazione commesso dagli utenti se non provvede alla rimozione del post offensivo.
Si segnala ai lettori del blog l’interessante sentenza di legittimità n. 12546/2019, depositata in data 20 marzo 2019, in materia di diffamazione commessa via web.
Oggetto della articolata pronuncia è la condotta diffamatoria di natura concorsuale imputata al gestore di un blog, al quale veniva contestata anche l’omessa rimozione del contenuto diffamatorio postato da terzi soggetti anonimi sul sito internet.
L’imputazione e lo svolgimento del processo.
La Corte di Appello di Messina confermava la pronuncia del Tribunale di Patti, con la quale era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato per il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen. 2. L’aggravante di cui al terzo comma dell’art. 595 cod. pen. era da riferire all’utilizzo, al fine di commettere il delitto, di un blog gestito dall’imputato, in cui venivano pubblicate espressioni di carattere diffamatorio in danno della persona offesa, provenienti sia dall’imputato medesimo che da soggetti terzi. In particolare, all’imputato, veniva contestato di aver scritto espressioni offensive sul blog e di non aver provveduto alla rimozione di commenti altrettanto diffamatori provenienti da utenti anonimi, rimossi solo su intimazione dell’autorità giudiziaria e per azione del provider Google.
Secondo la Corte territoriale non sussisterebbe alcun dubbio circa la riconducibilità di un blog all’interno della categoria “mezzo di pubblicità” menzionato, alternativamente al mezzo della stampa, nel comma terzo dell’art. 595 cod. pen. A sostegno del proprio assunto il Collegio di appello richiamava la recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui rientrano nella suddetta categoria tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione che, grazie all’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti.
Avverso tale pronunzia la difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione lamentando l’errore nell’applicazione agli amministratori di blog della disciplina relativa agli Internet Providers e contestando la idoneità offensiva delle condotte contestate con l’incolpazione penale.
La decisione della Cassazione e il punto di diritto
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso.
Di seguito si riportano i passaggi motivazionali di maggiore interesse per gli operatori di diritto e per tutti coloro che si occupano di comunicazione mediante l’uso delle nuove tecnologie.
- La diffamazione via web e la disciplina giuridica in tema di Internet Providing
“Va premesso che con la diffusione di internet e quindi con l’aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si è posto il problema della previsione normativa di fattispecie che prevedano un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti. La casistica di illeciti è variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identità, cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia, crypto-Locker e numerosi altri fenomeni ancora caratterizzano l’uso illecito del web. In particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilità di un numero esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di “opinionisti social” spesso si associano i cosiddetti “odiatori sul web”, che non esitano – spesso dietro l’anonimato- ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo. Questa Corte è intervenuta quindi frequentemente in materia, precisando, per esempio, che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, P.M. in proc. Manduca, Rv. 26909001).
Incontroversa dunque la configurabilità in capo al soggetto che immette il commento diffamatorio in rete ai sensi dell’art. 595 cod. pen., più problematico è il tema della responsabilità dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service. Va ovviamente chiarito che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona; così, il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce contenuti, risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei medesimi.Il vero problema della responsabilità del provider riguarda invece il caso in cui questo debba rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell’access provider, del sito creato sul server dell’host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers. La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE,relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L’articolo 7 di tale direttiva definisce gli “internet service providers” quali “fornitori di servizi in internet“.
Inoltre, l’articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per “servizi della società dell’informazione” si intendono le attività economiche svolte in linea – on line – nonché i servizi indicati dall’articolo 1, comma 1, lettera b, della legge n. 317 del 1986, cioè qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell’accesso ad Internet e a caselle di posta elettronica.
E’ stata quindi sancita l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers. Infatti, l’art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dall’art. 17 D.Igs. n. 70/2003), prevede quanto segue: << 1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. – 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».
(…) La Direttiva europea non impone dunque al provider né l’obbligo generale di sorveglianza ex ante, né tanto meno l’obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione. Ed è significativa la circostanza per cui la mancata collaborazione con le autorità fa sì che gli stessi providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati”.
Dal punto di vista del diritto penale, si parlerebbe in tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste dalla Direttiva 31/2000, di una responsabilità dell’ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente, se detto contenuto sia penalmente illecito.
La seconda forma di responsabilità sopra descritta è stata oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato nella previsione dell’art. 14 della Direttiva europea (cui corrisponde quella dell’art. 16 D.Igs. n. 70/2003) la fonte di un obbligo d’impedimento a carico degli ISP, legittimante un’imputazione di responsabilità degli stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016, Maffeis, di cui si parlerà più avanti).
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, però, non è stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, è avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet. Invero, la frammentarietà delle fonti e degli interventi in materia non rendono semplice un’analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l’atipicità delle loro attività, che – come sopra si è detto- presentano dinamiche e problematiche differenti”.
- La responsabilità penale degli amministratori di blog
“Proprio quanto appena evidenziato rende palese l’intrinseca diversità tra gli internet providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non forniscono alcun servizio nel senso precisato, bensì si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale”, impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma. Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero “diario di rete”) gestito quale sito personale è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software.
(…) Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.
Certamente, però, quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore è tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.
Va quindi esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.In tal senso si è espressa la sentenza del 9 marzo 2017 (sul caso Pihl vs. Svezia) della Corte Europea dei Diritti Umani, così chiarendo i limiti della responsabilità dei gestori di siti e blog per i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio.
(…) Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di più scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilità per concorso in diffamazione. La Corte europea ha quindi escluso la possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo. Per quanto si dirà anche più avanti, quindi, il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente.
In ragione di ciò rileva nel caso in esame il fatto che l’odierno ricorrente non si sia attivato tempestivamente per la rimozione dei commenti denigratori scritti da terzi utenti una volta venuto a conoscenza degli stessi. E’ d’altronde incontroverso che l'(omissis), sino a quando non è intervenuto l’oscuramento intimato dall’autorità giudiziaria ed eseguito addirittura dal Provider, ha consapevolmente mantenuto sul blog le espressioni lesive della reputazione di (omissis), cui peraltro aveva dato corso proprio con la pubblicazione della lettera a firma di quest’ultimo e con il commento sarcastico da lui redatto in calce alla stessa lettera”.
- La natura del reato omissivo imputato all’amministratore del blog
“La Corte territoriale ha correttamente sottolineato la rilevanza della mancata tempestiva cancellazione delle frasi diffamatorie, posto che – come si è già detto- l’amministratore del blog non può operare un vaglio preventivo sui commenti pubblicati da utenti anonimi, a meno che non abbia posto degli appositi filtri.
(…) … questa Sezione, nella già citata pronuncia attinente ad un caso simile a quello odierno, ha osservato che l’amministratore di un sito internet non può identificarsi con le figure previste dall’art. 57 cod. pen, occorrendo quindi individuare a quale titolo l’amministratore del sito possa essere dichiarato colpevole del reato di diffamazione. In assenza di norme specifiche si è ritenuto che tale fattispecie incriminatrice possa essere ascritta all’amministratore di un sito internet in base alle regole comuni, cioè o in qualità di autore della stessa o perché concorrente dell’autore materiale. Tale ultima ipotesi è quella rilevante nel caso oggetto di esame in questa sede.
Va tuttavia chiarito, per quanto concerne il riferimento nell’atto di ricorso al concorso omissivo nel reato commissivo altrui e al reato omissivo improprio, che entrambe le ipotesi presuppongono l’obbligo giuridico di impedire l’evento collegato ad una posizione di garanzia.
Condizioni necessarie per la ricorrenza di una posizione di garanzia sono: 1. un bene che necessiti di essere protetto, perché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo adeguatamente; 2. una fonte giuridica – anche negoziale – che abbia la finalità di tutelarlo; 3. l’individuazione di una o più persone specificamente individuate, dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati strumenti adeguati a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che si verifichi l’evento dannoso (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini ed altri, Rv. 248849). Pertanto, ai fini dell’operatività della cosiddetta clausola di equivalenza di cui all’art. 40 capoverso del codice penale, nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve considerare la fonte da cui deriva l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta o altra fonte obbligante (Sez. 4, n. 9855 del 27/1/2015, Chiappa, Rv. 262440).
Nel caso che ci occupa, invece, non è configurabile una posizione di garanzia ed un conseguente obbligo giuridico di garanzia in capo all’amministratore di blog, giacché tale figura non è investita da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli. Deve piuttosto affermarsi che la non tempestiva attivazione da parte del ricorrente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio – rilevante ex art. 40, secondo comma comma, cod. pen. – ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger.
(…) Indubbiamente perplessità in ordine a tale impostazione scaturiscono dal fatto che l’obbligo d’impedimento, sul quale si fonda il giudizio di responsabilità concorsuale, è stato collocato in un momento successivo a quello della consumazione del reato che è diretto ad impedire, facendo così breccia nella possibilità di configurare la fattispecie omissiva impropria di cui al combinato disposto degli artt. 40 e 110 cod.pen. Invero, è incontroverso che il delitto di diffamazione abbia natura di reato istantaneo (Sez. 5, n. 1763 del 19/10/2010, Antonini e altro, Rv. 24950701; Sez. 1, ordinanza n. 1524 del 15/05/1979) in quanto si consuma nel momento della divulgazione della manifestazione lesiva dell’altrui reputazione. Proprio in tema di diffamazione tramite “internet” (e ai fini della tempestività della querela) questa Corte ha avuto modo di considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul “web”, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l’interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza (Sez. 5, n. 23624 del 27/04/2012, P.C. in proc. Ayroldi, Rv. 25296401) Ne deriva che nei casi come quello in esame il reato di diffamazione si perfeziona nel momento della pubblicazione in rete del contenuto offensivo, per cui un obbligo di rimozione di quello stesso contenuto sarebbe possibile solo dopo la consumazione del reato.
Per superare tali perplessità sulla configurabilità di una responsabilità in concorso ex artt. 40 e 110 cod. pen. del blogger, si può fare ricorso alla figura della pluralità di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio. In altri termini, se —come è accaduto nella specie- il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuovere tali contenuti, finisce per farli propri e quindi per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell’aver consentito, proprio utilizzando il suo web-log, l’ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie”
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Riferimenti normativi
Art. 595 c.p. Diffamazione.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate
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Giurisprudenza citata in sentenza:
Cassazione penale, sez. V, 14/11/2016 , n. 4873
Ove taluno abbia pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con cui offendeva la reputazione di una persona, attribuendole un fatto determinato, sono applicabili le circostanze aggravanti dell’attribuzione di un fatto determinato e dell’offesa recata con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ma non quella operante nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
Cassazione penale, sez. V, 19/10/2010 , n. 1763
Integra il reato di diffamazione la condotta di colui che invii, a mezzo fax, un documento contenente espressioni offensive nei confronti di un funzionario di banca, sia pure diretto al suo diretto superiore, in quanto la diffamazione è un reato formale ed istantaneo che si consuma con l’adozione di mezzi che rendano accessibili a più persone le affermazioni lesive della reputazione. (Nella specie la scelta del telefax, quale strumento di comunicazione di una missiva diffamatoria, ha determinato la conoscenza o la conoscibilità della missiva non solo del destinatario ma di tutti coloro che avevano accesso al suddetto fax, posto in uno dei corridoi di accesso agli uffici).
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Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di diffamazione commessa on-line:
Cassazione penale, sez. V , 12/07/2018 , n. 42630
Se il social network non collabora nell’identificazione dell’autore del reato, le indagini devono essere approfondite per individuare chi ha scritto il post. Ad affermarlo è la Cassazione che ha imposto ai giudici di merito di motivare adeguatamente le ragioni dell’archiviazione a carico del presunto autore della diffamazione on line. Il caso riguardava alcuni post offensivi pubblicati su Facebook da un utente la cui identità era rimasta incerta, a seguito del rifiuto dei gestori di Facebook di fornire l’indirizzo IP dell’autore del messaggio. Il decreto di archiviazione disposto dal Gip veniva però impugnato in Cassazione dalla persona offesa che lamentava l’assoluta mancanza di indagini suppletive e di analisi degli ulteriori indizi forniti dalla persona offesa. Da qui la pronuncia della Suprema corte che ha imposto ai giudici di merito di andare oltre la mancata collaborazione dei social network e di approfondire tutti gli elementi utili alle indagini.
Cassazione penale , sez. V , 03/05/2018 , n. 40083
La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’ art. 595, comma terzo, cod. pen. , poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.
Cassazione penale , sez. V , 19/02/2018 , n. 16751
In tema di diffamazione, l’amministratore di un sito internet non è responsabile ai sensi dell’ art. 57 c.p. , in quanto tale norma è applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook). (In motivazione, la Corte ha precisato che il mero ruolo di amministratore di un forum di discussione non determina il concorso nel reato conseguente ai messaggi ad altri materialmente riferibili, in assenza di elementi che denotino la compartecipazione dell’amministrazione all’attività diffamatoria).
Cassazione penale, sez. V, 04/12/2017, n. 5175.
La legge n. 48 del 2008 (Ratifica della convenzione di Budapest sulla criminalità informatica) non introduce alcun requisito di prova legale, limitandosi a richiedere l’adozione di misure tecniche e di procedure idonee a garantire la conservazione dei dati informatici originali e la conformità ed immodificabilità delle copie estratte per evitare il rischio di alterazioni, senza tuttavia imporre procedure tipizzate. Ne consegue che il giudice potrà valutarle secondo il proprio libero convincimento (fattispecie relativa alla pubblicazione di un post ingiurioso su Facebook).
Cassazione penale, sez. V, 19/10/2017, n. 101.
Si configura il reato di diffamazione a mezzo di strumenti telematici se i commenti diffamatori, pubblicati tramite post sul social network Facebook, possono, pur in assenza dell’indicazione di nomi, riferirsi oggettivamente ad una specifica persona, anche se tali commenti siano di fatto indirizzati verso i suoi familiari.
Cassazione penale, sez. V, 29/05/2017, n. 39763.
In tema di diffamazione, l’individuazione del destinatario dell’offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell’offesa, sulla base di un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell’offesa (esclusa, nella specie, la configurabilità del reato per la condotta dell’imputato, che, in un post su Facebook, aveva espresso il suo sdegno per le modalità con cui erano state celebrate le esequie di un suo caro parente).
Cassazione penale, sez. V, 23/01/2017, n. 8482.
La pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook con l’attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all’art. 595, commi 2 e 3,c.p. ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa giustapposta dal Legislatore nel medesimo comma. Deve, infatti, tenersi distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall’ambito – più vasto ed eterogeneo – della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo. In caso di diffamazione mediante l’utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. n. 47 del 1948, ed in particolare, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 13.
Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.
È del tribunale penale la competenza a giudicare la condotta consistente nella diffusione di messaggi minatori e offensivi attraverso il social network Facebook, configurando i reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 c.p.
Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.
La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma c.p., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.
Cassazione penale, sez. V, 14/11/2016, n. 4873.
Ove taluno abbia pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con cui offendeva la reputazione di una persona, attribuendole un fatto determinato, sono applicabili le circostanze aggravanti dell’attribuzione di un fatto determinato e dell’offesa recata con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ma non quella operante nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
Cassazione penale, sez. V, 07/10/2016, n. 2723.
La divulgazione di un messaggio di contenuto offensivo tramite social network ha indubbiamente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, proprio per la natura intrinseca dello strumento utilizzato, ed è dunque idonea ad integrare il reato della diffamazione aggravata (fattispecie relativa all’inserimento di un messaggio offensivo sul profilo Facebook della persona offesa).
Cassazione penale, sez. V, 13/07/2015, n. 8328.
La condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, sicché, se tale commento ha carattere offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.
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