Diagnosi differenziale e responsabilità penale: risponde di omicidio colposo il medico di pronto soccorso che non diagnostica l’aneurisma al paziente che lamenta forti dolori addominali.

Si segnala ai lettori del blog la recente sentenza di legittimità n. 26906/2019 -depositata il 18.06.2019 che affrontando il tema della responsabilità penale del sanitario ha confermato la correttezza del percorso argomentativo seguito dai giudici di merito che avevano affermato la penale responsabilità del medico di pronto soccorso per colpa consistita nella omessa diagnosi differenzialedi una patologia grave – ritenuta emendabile chirurgicamente – che se tempestivamente individuata e trattata con intervento di elezione avrebbe consentito di conseguire un effetto salvifico.

Si invita il lettore a leggere l’intera sentenza che affronta tutti i temi della difesa tecnica che il difensore dell’imputato (e della parte civile nella prospettiva della privata accusa) deve affrontare nei procedimenti penali a carico del personale sanitario e paramedico, ossia quelli della colpa con le sue declinazioni, del nesso di causalità e, soprattutto, del criterio ermeneutico della prova scientifica e del diverso onere di motivazione che incombe sul giudice a seconda della diversa fonte su cui ritiene di fondare il proprio convincimento (consulenza di parte, perizia, eventuale CTU disposta nel parallelo giudizio civile).

Il caso clinico, l’imputazione e il doppio grado di merito.

La Corte di appello di Brescia confermava la penale responsabilità dell’imputato condannato in primo grado dal Tribunale in sede, tratto a giudizio per rispondere dell’accusa di omicidio colposo poiché, in qualità di medico operante presso il Pronto Soccorso dell’Istituto Clinico, diagnosticava al paziente un’addominalgia in verosimile coprotasi; la diagnosi era stata posta sulla scorta di accertamenti basilari compiuti  dal medico (esame radiografico, rilievo parametri vitali, prelievo per esami ematochimici) che secondo la sua valutazione escludevano la presenza di  ulteriori patologie connesse ai sintomi di cui riferiva il paziente.

Dalla lettura della sentenza si ricava che il paziente si era recato presso la struttura ospedaliera per i forti dolori addominali avvertiti in corrispondenza della fossa iliaca sinistra al quale era stata somministrata una terapia antidolorifica prima della dimissione dall’ospedale.

A seguito del decesso del paziente per ordine della Procura competente  veniva disposto sulla salma l’esame autoptico nel corso del quale veniva riscontrata la presenza di una massa aneurismatica la cui rottura, causa efficiente della morte, si era verificata dopo le dimissioni dal nosocomio.

Nel corso del dibattimento era emerso che l’aneurisma addominale, qualora fosse stato diagnosticato dall’imputato con una semplice ecografia,  avrebbe potuto essere trattato con intervento endoscopico o con chirurgia tradizionale a cielo aperto ed in entrambi i casi le chanchesdi sopravvivenza sarebbero state superiori al 90%.

Il ricorso per cassazione.

Contro la sentenza emessa dalla Corte territoriale di Brescia interponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, censurando il provvedimento impugnato  per violazione di legge e vizio motivazionale sia  in ordine alla ritenuta condotta colposa di natura omissiva del prevenuto, sia per la presenza ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra omissione ed exitusfinale.

 

Il giudizio di legittimità ed i principi di diritto.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché manifestamente infondato.

Di seguito si riportano i più significati passaggi estratti dal compendio motivazionale della sentenza in commento

  1. Sulla condotta omissiva del sanitario e la colpa per omessa diagnosi differenziale:

“(…)La Corte territoriale individua chiaramente nella negligenza il principale profilo di colpa imputabile all’odierno ricorrente. Per i giudici del gravame del merito la mancata prescrizione dell’ecografia addominale è da ricondurre non tanto all’imperizia (la quale comunque si coglierebbe palesemente nella formulazione della diagnosi di coprostasi) e, dunque alla circostanza di non aver prontamente formulato la diagnosi di aneurisma dopo la palpazione dell’addome, esame clinico che sarebbe sicuramente bastato ad un chirurgo vascolare (ma non necessariamente ad un medico di pronto soccorso chetale non era) per avvertire la presenza di una massa pulsante di dimensioni non modeste come quella del [omissis], ma alla negligenza, ossia alla trascuratezza tenuta dall’imputato, laddove, in assenza di qualsivoglia elemento a sostegno, ha formulato la diagnosi conclusiva di “verosimile coprostasi” e lì si è fermato, abbandonando il percorso diagnostico e omettendo così la prescrizione di accertamenti semplici e comuni che avrebbero condotto alla corretta diagnosi. Egli – secondo la logica motivazione della Corte bresciana- è rimasto, quindi, “arroccato su tale diagnosi iniziale (che lui stesso ha indicato come solo “verosimile”, avverbio, già di per sé, significativo dello scarso convincimento raggiunto al riguardo), pur in presenza dell’esito della radiografia che aveva consentito di escludere inequivocabilmente la presenza di masse fecali consistenti”, senza neanche cercare di verificare la propria teoria mediante l’esecuzione dell’ispezione rettale, così, di fatto, trascurando ogni altra ipotesi diagnostica, tra cui l’aneurisma aortico, che pure è chiaramente indicato nelle linee guida prodotte dalla difesa tra le possibili cause del dolore addominale. I giudici di merito, dunque, argomentatamente, rinvengono plurimi profili di colpa per negligenza nella condotta del sanitario odierno ricorrente, e precisamente:

  1. l’omessa esclusione della diagnosi di coprostasi, nonostante gli esiti della radiografia non evidenziassero masse fecali ma solo alcuni livelli idro-aerei del tutto comuni, nonostante la sintomatologia riferita dal paziente non fosse compatibile con quella tipica della coprostasi (incapacità a defecare- non riferita; dolore addominale- unico sintomo riferito; nausea -non riferita; incontinenza fecale- non riferita- ; vomito -non riferito; mal di testa -non riferito-; perdita dell’appetito non riferito ed anzi da escludersi atteso che omissis aveva consumato il proprio pasto regolarmente prima di recarsi in Pronto Soccorso; febbre- esclusa; ecc.) e, infine, nonostante il paziente non rientrasse tra le categorie di soggetti a rischio coprostasi (anziani o allettati);
  2. l’omessa esecuzione dell’esplorazione rettale, primo esame prescritto dalle linee guida ai fini dell’accertamento dell’ipotesi diagnostica di coprostasi.
  3. l’omessa prescrizione dell’esame ecografico che è “metodica diagnostica di rapida esecuzione, non invasiva, poco costosa, che può fornire indicazioni anatomiche accurate su fegato, albero biliare, milza, pancreas, reni, organi pelvici e pareti viscerali, aiutando spesso ad identificare in tempi brevi l’eziologia del dolore addominale” ed è accertamento complementare alla radiografia dell’addome;
  4. la dimissione dell’ [omissis], previa somministrazione di semplice antidolorifico; proprio guardando all’omissione a monte, ossia all’abbandono del percorso diagnostico con la formulazione di una diagnosi conclusiva non supportata, e non, invece, alla mancata prescrizione dell’eco-addome, che della prima è conseguenza, si ravvisano agevolmente entrambe le dimensioni proprie del rimprovero colposo. Corretto in punto di diritto appare il richiamo che la Corte territoriale opera alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità in punto di diagnosi differenziale, laddove ricorda essersi affermato che in ipotesi di omicidio colposo, versa in colpa, per imperizia, nell’accertamento della malattia, e negligenza, per l’omissione delle indagini necessarie, sia al fine di dissipare dubbi circa la esatta diagnosi del male portato dal paziente, sia per individuare la terapia di urgenza più confacente al caso, il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie, comunque, pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente.Si è precisato in più pronunce che risponde di omicidio colposo per imperizia, nell’accertamento della malattia, e per negligenza, per l’omissione delle indagini necessarie, il primario ospedaliero che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente. (così Sez. 4, n. 34729 del 12/07/2011, Ravasio, Rv. 251348 in relazione ad un caso di omessa prescrizione e somministrazione di terapia anticoagulante, conseguente all’omissione di semplici esami di accertamento, ritenuti doverosi in considerazione dell’esito di una radiografia toracica praticata al paziente poi deceduto; conf. Sez. 5, n. 52411 del 04/07/2014, C., Rv. 261363; Sez. 4, n. 4452 del 29/11/2005 dep.il 2006, Campanile, Rv. 233238; Sez. 4, n. 11651 del 8/11/1988, Argelli, Rv. 179815).

 

  1. La sintesi tra sapere scientifico e sapere giuridico nei processi penali per colpa medica.

“la giurisprudenza di questa Sez. 4, n. 43786 del 17/9/2010, Cozzini, Rv. 248944, che ha chiarito un punto fondamentale nei rapporti tra sapere scientifico e sapere giuridico, che va qui ribadito, nel senso che il “sapere scientifico è indispensabile strumento al servizio del giudice di merito”, in special modo per tutte le volte “in cui l’indagine sulla relazione eziologica si colloca su un terreno non proprio nuovo, ma caratterizzato da lati oscuri, da molti studi contraddittori e da vasto dibattito internazionale” (così questa Sez. 4, n. 43786/2010, Cozzini, par. 14). In questi casi, continua la medesima sentenza: “…le indicate modalità di acquisizione ed elaborazione del sapere scientifico all’interno del processo rendono chiaro che esso è uno strumento al servizio dell’accertamento del fatto e, in una peculiare guisa, parte dell’indagine che conduce all’enunciato fattuale. Ne consegue con logica evidenza che la Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all’affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidete, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata.

Tale valutazione, giova ripeterlo, attiene al fatto [. . •1. Al contrario, il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime. Del resto questa Corte Suprema ha già avuto modo di enunciare che il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico, e non detiene proprie conoscenze privilegiate. Esso è chiamato a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico- scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilítà delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (Sez.4, n. 42128/2008)” (ivi, par. 14).

La stessa sentenza Cozzini specifica ulteriormente quale sia il compito del giudice di legittimità rispetto al giudice di merito: “Questa Corte di legittimità, d’altra parte, come pure si è tentato di chiarire, è chiamata ad esprimere solo un giudizio di razionalità, di logicità dell’argomentazione esplicativa. È dunque errato affermare che essa abbia ritenuto o escluso l’esistenza di tale fenomeno. In realtà la Corte ha solo riconosciuto l’assenza di vizi logici del ragionamento causale articolato sulla base della legge scientifica (ritenuta fondata dai giudici di merito) afferente l’abbrevíazione della latenza nel caso di esposizione protratta” (ivi, par. 15).

E anche successivamente alla sentenza Cozzini questa Corte di legittimità ha ribadito (Sez. 4, n. 24573 del 13/5/2011, PC nel proc. a carico di Di Palma ed altri, non mass.; vedasi anche Sez. 4, n. 16237/2013) che essa non è giudice del sapere scientifico, giacché non detiene proprie conoscenze privilegiate, ma è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto.Questa Corte di Cassazione, rispetto a tale apprezzamento, quindi, non deve stabilire se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia stata razionale e logica. Ciò significa che, in questa sede, non si può valutare la maggiore o minore attendibilità degli apporti scientifici esaminati dal giudice di merito, in quanto quest’ultimo, in virtù del principio del suo libero convincimento e dell’insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettategli dai differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti.

  1. Come varia l’onere di motivazione rispetto alla fonte del sapere scientifico selezionata dal giudice di merito.

La Corte territoriale, sul punto, richiama conferentemente, la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 5, n. 9831 del 15/12/2015 dep. il 2016, Minichini ed altri, Rv. 267566; conf. Sez 1, n. 11706 del 11.11.1993; Sez 1. n. 6528 dei 11.05.1998) che mette in evidenza la diversa posizione processuale dei consulenti di parte rispetto ai periti, laddove i primi prestano, infatti, la loro opera nel solo interesse della parte che li ha nominati e non assumono l’impegno di obiettività previsto per i soli periti dall’art. 226 cod. proc. pen. Da tale diversa posizione processuale discende per il giudice di merito un diverso onere motivazionale: qualora ritenga di aderire alle conclusioni del perito d’ufficio, non condivise dai consulenti di parte, non è tenuto a fornire l’autonoma dimostrazione della esattezza scientifica della perizia e dell’erroneità, per converso, della consulenza, bastando la semplice dimostrazione della valutazione critica delle conclusioni del perito d’ufficio e della non ignoranza delle argomentazioni dei consulenti, qualora, invece, voglia discostarsi dalle conclusioni del perito, sarà tenuto ad un più penetrante onere motivazionale, “dovendo illustrare in modo accurato le ragioni della scelta operata, in rapporto alle progettazioni che ha ritenuto di disattendere, attraverso un percorso logico congruo, che evidenzi, innanzi tutto la correttezza metodologica del suo approccio al sapere tecnico-scientifico a partire dalla preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni scientifiche disponibili ai fini della spiegazione del fatto “.’ (così la citata Sez. 5, n. 9831 del 15/12/2015 dep. il2016, Minichini ed altri, Rv. 267566, che ha censurato la decisione con cui il giudice di appello – disattendendo la sentenza di primo grado – ha omesso di contestare la non conformità, allo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, dei postulati su cui i periti di ufficio avevano fondato la propria decisione e dei metodi di indagine seguiti o la loro erronea applicazione al caso concreto, attraverso un esaustivo esame critico di tutti i passaggi attraverso i quali si è formata la valutazione dei periti fatta propria dal giudice di primo grado). Il principio in questione è stato, ancora di recente, ribadito laddove si è affermato che, in tema di controllo sulla motivazione, il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d’ufficio, in difformità da quelle del consulente di parte, non può essere gravato dell’obbligo di fornire autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica delle prime e dell’erroneità delle seconde, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito di ufficio, senza ignorare le argomentazioni del consulente; conseguentemente, può ravvisarsi vizio di motivazione, denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lettera e), cod. proc. pen., solo qualora risulti che queste ultime siano tali da dimostrare in modo assolutamente lampante ed inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali recepite dal giudice (Sez. 5, n. 18975 del 13/2/2017, Cadore, RV. 269909). La stessa Corte territoriale, tuttavia, ricorda anche che il contributo decisivo dei consulenti del PM, che sottolinea meritare di essere valutato con particolare 10 Corte di Cassazione – copia non ufficiale attenzione, sia in ragione della correttezza metodologica del loro operato, sia in ragione dell’indipendenza di tali soggetti. La Corte territoriale, infatti, a precisazione di quanto sopra detto circa il ruolo del perito e dei consulenti tecnici, aggiunge che “nel nostro sistema processuale, il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un’attività di ausilio a una ‘parte” del processo, si staglia dalla figura generale e presenta specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati. Egli (..) concorre oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e “imparzialità” nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche afavore della persona sottoposta alle indagini (articolo 358 c.p.p.). Il ruolo e la funzione rivestiti gli impongono dunque il dovere di verità”.

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Quadro normativo di riferimento:

Art. 589 cod. pen. Omicidio colposo.

Chiunque cagiona per colpa [43] la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (2) la pena è della reclusione da due a sette anni (1).

Se il fatto è commesso nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena è della reclusione da tre a dieci anni (6).

[Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

  1. 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;
  2. 2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.](5)

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone [582], si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici (3).

 (1) Comma sostituito dall’art. 2, comma 1, L. 21 febbraio 2006, n. 102; per le cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, vedi l’art. 3, della medesima L. 102/2006. Successivamente, il presente comma è stato così modificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125 ed, infine, dall’art. 1, comma 1, lett. c), L. 23 marzo 2016, n. 41, a decorrere dal 25 marzo 2016, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 8 della medesima L. 41/2016.

(2) La normativa infortunistica è contenuta in differenti leggi e regolamenti tra cui rientrano il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, il D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 e il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626.

(3) Viene richiamata la disciplina del concorso formale di reati, che dunque rimangono distinti, non integrano dunque tale comma un’autonoma aggravante del primo comma.

(5) Comma abrogato dall’art. 1, comma 3, lett. d), L. 23 marzo 2016, n. 41, a decorrere dal 25 marzo 2016, ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, comma 8 della medesima L. 41/2016.

(6) Il presente comma è stato inserito dalla legge 11 gennaio 2018, n. 3. “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute”. In vigore dal 15/02/2018.

Art. 40 cod. pen. –  Rapporto di causalità:

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Art. 590-sexies cod. pen. – Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario:

Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

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Rassegna giurisprudenziale di maggiore rilevanza in materia di colpa medica e diagnosi differenziale:

Cassazione penale sez. III, 12/06/2018, n.46957:

Nell’ambito della colpa lieve da imperizia del sanitario, purché questa attenga alla fase attuativa della prestazione medica, la disciplina del decreto Balduzzi e quella della legge Gelli-Bianco prevedono entrambe la non punibilità di chi se ne renda responsabile. Rimane ferma la responsabilità civile del sanitario, anche per colpa lieve, a prescindere dallo strumento con il quale il legislatore disciplina il difetto di rilevanza penale della condotta colposa da imperizia lieve.

Cassazione penale sez. IV, 16/11/2018, n.412:

In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’abrogato articolo 3 del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, come modificato dalla legge 8 novembre 2012 n. 189(cosiddetta “legge Balduzzi“), si configura come norma più favorevole rispetto all’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta “legge Gelli-Bianco”), sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (sezioni Unite, 21 dicembre 2017, Mariotti).

Cassazione penale sez. IV, 22/06/2018, n.47748:

L’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca a inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo ma anche qualora si ometta, di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi, ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. D’altronde, allorché il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a condurre alla formulazione di una diagnosi differenziale, la condotta è colposa allorquando non si proceda alla stessa e ci si mantenga invece nell’erronea posizione diagnostica iniziale.

Cassazione penale sez. fer., 25/08/2015, n.41158:

In tema di responsabilità del sanitario per condotte omissive in fase diagnostica, ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, occorre far ricorso ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico, al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest’ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell’evento o comunque ridotto l’intensità lesiva dello stesso. (Fattispecie in cui è stata esclusa la responsabilità degli imputati, non essendo stata raggiunta la prova che, ove questi avessero ripetuto determinati esami strumentali, sarebbero pervenuti con certezza od elevata probabilità od una diagnosi differenziale di quella formulata, che avrebbe consentito di compiere l’intervento chirurgico necessario per impedire il decesso del paziente).

Cassazione penale sez. IV, 04/11/2014, n.49707:

In materia della causalità omissiva nell’attività medico-chirurgica vale la regola di giudizio della ragionevole, umana certezza; e tale apprezzamento va compiuto tenendo conto, da un lato, delle informazioni di carattere generalizzante afferenti al coefficiente probabilistico che assiste il carattere salvifico delle misure doverose appropriate, e, dall’altro, delle contingenze del caso concreto. Ne consegue che non può rispondere di omicidio colposo il medico che non ha proceduto ad un tempestivo intervento chirurgico se non vi è assoluta certezza che con le condotte terapeutiche omesse l’evento non si sarebbe verificato.

Cassazione penale sez. V, 04/07/2014, n.52411:

In tema di responsabilità professionale medica, allorché il sanitario si trova di fronte ad una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non si proceda alla stessa, e ci si mantenga, invece, nell’erronea posizione diagnostica iniziale; ciò, sia nelle situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, sia laddove è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare della situazione già esistente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata per aver giudicato configurabile la responsabilità del ginecologo, che non aveva eseguito un monitoraggio intermittente sulle condizioni del feto, nonostante dai tracciati emergessero segni di sofferenza fetale ai quali era seguita, come sviluppo prevedibile, la morte del nascituro).

Cassazione penale sez. IV, 27/09/2011, n.37043:

In tema di responsabilità professionale medica, nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte ad una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea posizione diagnostica iniziale. E ciò vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale sia già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro, a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente.

Cassazione penale sez. IV, 12/07/2011, n.34729:

Risponde di omicidio colposo per imperizia, nell’accertamento della malattia, e per negligenza, per l’omissione delle indagini necessarie, il primario ospedaliero che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente. (Fattispecie in tema di omessa prescrizione e somministrazione di terapia anticoagulante, conseguente all’omissione di semplici esami di accertamento, ritenuti doverosi in considerazione dell’esito di una radiografia toracica praticata al paziente poi deceduto).

Cassazione penale sez. IV, 29/11/2005, n.4452:

In tema di responsabilità professionale del medico, nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea posizione diagnostica iniziale. E ciò vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale sia già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente.

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