Risponde di omissione di referto il professionista psicologo che abbia omesso di segnalare all’Autorità Giudiziaria gli abusi genitoriale subiti dalla paziente.
Si segnala ai lettori del blog la recente sentenza n. 44620/2019, con la quale a Suprema Corte ha affermato il principio di diritto secondo il quale gli esercenti della professione di psicologo e psicoterapeuta che nell’esercizio della loro attività, anche di natura privatistica, vengano a conoscenza di reati procedibili di ufficio.
In particolare, il Supremo Collegio, ha ritenuto corretta l’affermazione di penale responsabilità per l’omissione di referto ascritta alla professionista psicologa in danno della paziente, vittima di abusi da parte del genitore adottivo.
Il caso clinico, l’imputazione e il doppio grado di giudizio.
La Corte di appello di Torino conferma la condanna dell’imputata alla pena ritenuta di giustizia per previsto e punito dall’art 365 cod. pen.
Nel caso oggetto dello scrutinio di legittimità la giudicabile risultava tratta a giudizio nella qualità di psicologa e psicoterapeuta della paziente minorenne affidata sia per favoreggiamento, sia perché ometteva di segnalare all’Autorità Giudiziaria competente i fatti appresi durante l’espletamento della terapie relativi agli abusi sessuali subiti dal padre adottivo, convincendo la stessa a non sporgere denuncia alla polizia.
Il principio di diritto e il giudizio di legittimità.
Il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso, rilevando l’inammissibilità delle censure promosse dall’imputata.
Di seguito si riportano i passaggi di maggiore interesse per gli operatori di diritto in materia sanitaria estratti dal compendio motivazionale della sentenza in commento che affermano la responsabilità penale per il reato di omesso referto in capo allo psicologo:
(i) La ricostruzione delle condotte e la sussistenza degli elementi costitutivi del reato “proprio” di cui all’art 365 cod. pen.
“Deve dunque affermarsi il principio di diritto secondo cui, a prescindere dagli obblighi che ineriscono alla figura dello psicologo e psicoterapeuta inquadrati in una struttura pubblica quali enunciati dagli artt. 361, 362 cod. pen., anche nell’ambito di un rapporto di natura libero-professionale, gli esercenti della professione di psicologo e psicoterapeuta che avendo prestato assistenza ad opera in casi che possono presentare caratteri di un delitto per il quale si debba procedere di ufficio hanno l’obbligo di riferire all’Autorità Giudiziaria, a meno che la segnalazione non esponga “la persona assistita a procedimento penale”.
“Sostiene la ricorrente, in relazione alla configurabilità degli elementi strutturali del reato in esame, che la necessità di redigere la segnalazione all’autorità giudiziaria è quella di assicurare tramite referto elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione dei fatti, “elementi tecnici” che rimandano a tracce materiali del reato e che non sono ravvisabili in relazione alle risultanze degli esami condotti dalla psicoterapeuta che risolvono in racconti e confidenze rispetto ai quali il primo scrutinio dello psicologo-psicoterapeuta è proprio quello di vagliare la veridicità. La tesi della difesa è infondata e individua la funzione ed il contenuto del referto sulla base dell’id quod plerumque accidit in relazione a quelle fattispecie di reato, come il reato di lesioni, che vengono più frequentemente all’attenzione del personale sanitario e che presentano più o meno evidenti connotati di obiettività che in molti casi è possibile rilevare solo nella immediatezza perché trattasi di lesioni destinate a rapida evoluzione e addirittura risoluzione clinica (si pensi alla ampia gamma e tipologia di contusioni, abrasioni, ferite che vengono all’attenzione del medico.)”
…..“La ratio della norma incriminatrice, che sanziona il ritardo e omissione della segnalazione all’autorità giudiziaria di un fatto costituente reato nella prospettiva della sua repressione, non consente tuttavia, sul piano epistemologico, di accettare la limitazione, così descritta, del contenuto del referto la cui funzione di tempestiva e completa informativa all’autorità giudiziaria si colora e si riempie di contenuto alla luce della tipologia di reato e che non si esaurisce nella enunciazione di elementi obiettivi di natura diagnostica, individuabili in segni fisici, elementi obiettivi che, nel caso in esame, erano costituiti, oltre che dal disagio relazionale che la ragazza palesava, dal racconto della vittima, che, per come si evince dalla istruttoria, è stato frutto della ricostruzione che la paziente ha fatto alla terapeuta all’esito di un faticoso e lungo percorso. Si tratta di elementi dal contenuto intuibilmente più articolato e complesso, rispetto alla luce delle specifiche competenze professionali dell’agente obbligato alla redazione ed alla presentazione del referto.”
(ii) La inapplicabilità dello stato di necessità invocato quale scriminante della responsabilità penale del professionista:
“Le conclusioni di merito sulla ricorrenza dell’elemento psicologico del reato di omissione di referto e sulla insussistenza dell’allegato stato di necessità, anche solo putativo, sono fondate su solidi elementi di fatto e sulla corretta e motivata applicazione di regole giuridiche.
Dalla ricostruzione in fatto emerge che la ricorrente, dopo un necessario periodo di approfondimento dei racconti della vittima, aveva avuto piena conoscenza della consumazione degli abusi sessuali, risalenti rispetto al momento nel quale era iniziata la terapia della minore. Anche ove non si volesse ritenere credibile la collocazione della confessione del omissis alla terapeuta (secondo il coimputato verificatasi già a metà dell’anno 2014), è certo che nel mese di gennaio 2015 il omissis aveva confessato i fatti alla moglie e che costei aveva informato la ricorrente, che le aveva confermato i fatti. Tanto ciò è vero che la madre della minore aveva concordato con la terapeuta una serie di iniziative volte ad allontanare il marito dall’abitazione familiare.”
“A fronte di questa pacifica ricostruzione in fatto è conseguente l’affermazione della sentenza impugnata di ritenere accertata la piena conoscenza, da parte dell’imputata, della commissione di un fatto integrante gli estremi di reato perseguibile d’ufficio, appreso nell’ambito del rapporto di assistenza terapeutica a favore della minore e la conoscenza dell’imputata, in forza della professione esercitata, dall’obbligo di presentare a riguardo, segnalazione all’autorità giudiziaria.
Rimane una mera asserzione dell’imputata non aver sporto segnalazione dei fatti temendo gesti anticonservativi della minore, pericolo che non ha trovato alcun riscontro processuale essendo invece, comprovati comportamenti aggressivi eterodiretti della ragazza verso le figure genitoriali sia attraverso ricorrenti minacce (anche di denuncia penale) che la ragazza aveva rivolto reiteratamente al padre, di fronte alle pretese educative del genitore, e, con il passare del tempo, anche alla madre, che la giovane accusava di essere sorda e cieca di fronte alle minacce che rivolgeva al genitore, minacce culminate, nel mese di aprile 2015, in un’aggressione in danno del padre con coltelli della cucina, occasione in cui aveva ferito la madre, intervenuta per calmare gli animi.”
“Come anticipato, la mancanza di elementi di prova dell’assunto della difesa circa la minaccia della giovane paziente di dare corso ad atti anticonservativi, rende manifestamente infondata la prospettazione difensiva sulla ricorrenza dello stato di necessità, anche solo putativo, che aveva determinato l’imputata a non redigere referto.”
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Riferimento normativo.
Art. 365 cod. pen. Omissione di referto:
Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’articolo 361, è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro.
Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale [384].
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Quadro giurisprudenziale che afferma la responsabilità penale del professionista esercente attività di psicologo/psicoterapeuta che ometta de refertare fatti costituenti reato.
Corte appello Trento, 07/07/2017, n.149:
La Corte rileva, peraltro, che il medico avrebbe dovuto farsi carico, sotto un profilo deontologico, di avvisare la propria paziente dell’esito positivo dell’esame e non delegare per la consegna del referto la segreteria, come da prassi dell’ospedale. Il protocollo interno, in atti, fa riferimento alla spedizione del referto in caso di esito negativo, mentre parla di “consegna” nel caso di esito positivo, onerando di ciò, dal punto di vista materiale, la caposala. Tali aspetti critici non configurano peraltro, a parere di questa Corte, il rifiuto di atti di ufficio ex art. 328 c.p. non rientrando nella previsione di detto reato una semplice inosservanza di obblighi, nel caso di specie quello di attivarsi personalmente per la comunicazione dell’esito dell’esame, ma si attestano nell’ambito strettamente deontologico. L’appello va pertanto respinto.
Cassazione penale sez. VI, 11/06/2015, n.38281:
È configurabile il favoreggiamento anche in caso di riscontrati contegni omissivi strumentali all’elusione laddove l’autore della condotta sia gravato da un obbligo giuridico di attivarsi ed abbia tradito l’aspettativa dell’ordinamento, astenendosi dalla condotta dovuta. Un tale obbligo giuridico può rinvenirsi, nel caso del sanitario, nell’art. 334 c.p.p., la cui violazione, nel caso di cure prestate al latitante che risulta aggredito da terzi e riporti lesioni procedibili d’ufficio, attiva i presupposti oggettivi della omissione di cui all’art. 365 c.p. e finisce per integrare il favoreggiamento, che assorbe l’omissione di referto, quando configuri un aiuto alla elusione delle indagini.
Cassazione penale sez. VI, 29/10/2013, n.51780:
Il mancato referto da parte dei medici che hanno eseguito un accertamento autoptico in presenza di elementi che non consentivano di escludere, con ragionevole certezza, che il decesso fosse riconducibile a delitto procedibile d’ufficio, integra la fattispecie di cui all’art. 365 c.p. non potendo essere addotto a giustificazione il rischio di inutili refertazioni.
Cassazione penale sez. IV, 21/02/2012, n.10864:
Nel reato omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento necessita di essere vagliato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica (e non solo statistica); il reato si configura solo se l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo o avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (nella specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici del merito, che avevano riconosciuto colpevole del reato di lesioni personali colpose aggravate commesso nell’esercizio dell’attività medica un medico che, nonostante all’esito del referto istologico successivo ad un intervento subito da una paziente fosse stato segnalato un tumore, aveva comunque dimesso la donna con una diagnosi generica e senza indicare l’opportunità di sottoporre la paziente a radioterapia. La complessiva condotta di tipo omissivo aveva portato alla necessità di intervenire nuovamente in modo chirurgico e di sottoporre finalmente la paziente alla radioterapia. A detta della Corte, nel caso in esame, i giudici di merito non si erano soffermati sul mero dato statistico ma avevano approfondito la vicenda anche dal punto di vista scientifico, convincendosi che una differente opzione terapeutica avrebbe quantomeno ritardano l’insorgere della recidiva, causa di un nuovo intervento chirurgico).
By Claudio Ramelli @Riproduzione Riservata