Va assolto lo psichiatra in servizio presso l’istituto carcerario che prescrive tutte le misure necessarie ad evitare il rischio suicidario del paziente, se questo si realizza a causa dell’altrui inadempienza.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza 5976.2020 depositata il 12.02.2020, resa dalla IV Sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale il Collegio del diritto ha affrontato il delicato tema  della posizione di  garanzia del medico psichiatra, con riferimento ad un caso di decesso per suicidio di una detenuta avvenuta all’interno di una casa circondariale.

Il caso clinico e l’imputazione penale.

Nel caso di specie, era contestato al medico psichiatra in servizio presso il carcere, nonché alla responsabile del reparto femminile della casa circondariale ed alla direttrice e al comandante delle guardie dell’istituto, il reato di omicidio colposo ex art. 589 cod. pen., per aver gli stessi cagionato la morte della paziente detenuta, per imprudenza, negligenza ed imperizia, nonché per inosservanza dei regolamenti inerenti al trattamento ed alla sorveglianza di pazienti esposti a rischio suicidario.

In particolare si contestava loro di non aver impedito che la paziente, affetta da disturbi di personalità bipolare e borderline, provocasse la propria morte per asfissia, impiccandosi utilizzando il proprio indumento intimo.

L’iter processuale di merito.

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Civitavecchia, assolveva per non aver commesso il fatto la responsabile del reparto femminile della casa circondariale; disponeva il non luogo a procedere nei confronti della direttrice e del comandante delle guardie del carcere, per intervenuta estinzione del reato per prescrizione; rigettava l’appello proposto dalla parte civile nei confronti del medico psichiatra in servizio presso l’istituto assolto in primo grado per non aver commesso il fatto

Il ricorso per cassazione e il principio di diritto

Le parti civili propongono ricorso per cassazione avverso la pronuncia resa dalla Corte territoriale romana articolando plurimi motivi di impugnazione per l’apprezzamento dei quali si rimanda alla lettura della sentenza in commento.

In particolare, per quanto concerne la posizione dello psichiatra, le difese dei ricorrenti lamentano vizio di motivazione nella parte in cui la “doppia conforme di merito”  aveva assolto  il medico dalla incolpazione penale,  ascrivendogli  l’omissione  delle regole  necessarie cautelari che se adottate avrebbero potuto evitare l’exitus infausto

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso interposto dalla parte civile, affermano che nessuna responsabilità sia configurabile in capo al medico psichiatra.

Si segnalano, a tal proposito, i seguenti passaggi tratti dal compendio motivazionale della sentenza resa dal Collegio del diritto che da atto dell’estraneità della condotta dello psichiatra  rispetto alla  catena causale che ha portato al decesso della paziente (laddove la responsabilità di attuare le prescrizioni dello psichiatra gravava, piuttosto, sulla direttrice e sul comandante delle guardie carcerarie):

<Con particolare riferimento alla condotta del medico psichiatra la Corte territoriale, anche alla luce della perizia di ufficio disposta in sede di appello, ha valorizzato, al pari del primo giudice, che il [omissis ]aveva fatto una corretta diagnosi d’ingresso il 13 giugno 2009, prescrivendo una adeguata terapia e, che, stante il rischio suicidario che già emergeva dai ripetuti atti autolesionistici nella pregressa detenzione, aveva disposto il collocamento in cella liscia a stretta sorveglianza, senza suppellettili e vestiti, proprio in quanto vi era stato già un tentativo di impiccagione; il [omissis] aveva di nuovo visitato la [omissis]il 17 giugno 2009 e aveva rilevato “discontrollo pulsionale e un aggravamento del rischio suicidario“; aveva, quindi, aggiunto alla terapia farmacologica il valium e disposto che fosse controllata a vista, ove necessario “contenuta”, e che fosse ricoverata in OPG.

E’ stata esclusa la concreta percorribilità di forme alternative al trattamento in carcere, quali il ricovero in pronto soccorso (che non avrebbe potuto aggiungere nulla in termini di prescrizione farmacologica e ipotesi diagnostica) o la proposta di trattamento sanitario obbligatorio (TSO), per la quale mancavano i tre requisiti richiesti dalla legge; la misure della nudità e della sorveglianza a vista erano necessarie in quanto uniche in grado di garantire un pronto intervento del personale ed escludere la possibilità suicidaria soprattutto nella fase di breve durata che doveva precedere il trasferimento in una struttura più idonea, e ciò in considerazione del doppio tentativo suicidario effettuato dalla [omissis]nei pochi giorni di permanenza nell’Istituto.

A fronte di ciò, nonostante le circolari del DAP e le linee guida in tema di gestione dei detenuti a rischio suicidario impongano di fatto al direttore del carcere e al capo della polizia penitenziaria l’assunzione di tutte le iniziative e le condotte necessarie per contenere il pericolo, nel caso di specie, oltre alla richiesta di immediato trasferimento, non è stata data attuazione alla sorveglianza a vista, prescritta dal medico psichiatra né, dinanzi all’aggravarsi della situazione, vi è stata una pressante investitura del Provveditorato per attuare l’immediato trasferimento al carcere di Sollicciano o per far fronte ad un’ eventuale carenza di personale.

Ciò posto, la Corte territoriale ha evidenziato, in modo pienamente coerente sul piano logico e plausibile in termini tecnico-scientifici, il carattere di soggetto ad alto rischio della paziente [omissis] per la quale, secondo le linee  guida più riconosciute nel settore specifico psichiatrico, si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico prescritti, a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente ventiquattr’ore su ventiquattro. Tale misura non fu in nessun caso e in nessun momento adottata nei confronti della detenuta, che ebbe una sorveglianza saltuaria, oggettivamente insufficiente a impedire il gesto suicidario.

Sul punto, varrà richiamare l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele>.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA