Art. 218 L. fallimentare – RICORSO ABUSIVO AL CREDITO

Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.

Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni.

 

 

La fattispecie: la norma sanziona la condotta fraudolenta dei soggetti di cui al comMa 1, i quali pongono in essere condotte dissimulatorie del dissesto economico o dello stato di insolvenza al fine di ricorrere al credito. L’art. 225 estende la punibilità anche agli amministratori e ai direttori generali di società dichiarate fallite, per le medesime condotte.

Elemento soggettivo: dolo generico.

Momento di consumazione:  momento della dichiarazione di fallimento del soggetto attivo. 

Sanzione:  reclusione da 6 mesi a 3 anni

Procedibilità: d’ufficio

Competenza: Tribunale monocratico.

Prescrizione: 6 anni.

 

La rassegna delle più significative pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di ricorso abusivo al credito:

 

Cassazione penale sez. V, 24/06/2019, n.36985

Tra le norme incriminatrici di cui agli artt. 218 l.fall. e 640 c.p. sussiste un rapporto di specialità che, ai sensi dell’art. 15 c.p., consente di individuare nella prima la disposizione prevalente. Difatti, il delitto di ricorso abusivo al credito ha un’oggettività giuridica più ampia di quello di truffa, atteso che il disvalore di questo delitto viene assorbito in quello del reato fallimentare che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell’interesse pubblico dell’economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito; proprio per tale ragione, il delitto di cui all’art. 218 si caratterizza per più elementi specializzanti rispetto alla truffa, ossia per la particolare qualità che deve rivestire il soggetto attivo e la necessità che alla condotta segua la sentenza dichiarativa di fallimento. Peraltro, anche prima che l’art. 32, comma 1, l. 28 dicembre 2005 n. 262 modificasse l’art. 218 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 non era possibile il concorso formale tra il delitto di ricorso abusivo al credito e quello di truffa, atteso che il citato art. 218 conteneva una clausola di riserva che rendeva applicabile il delitto fallimentare solo in via sussidiaria, nel caso in cui il fatto non costituisse un delitto più grave. Poiché il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di anni due di reclusione, mentre il massimo edittale della truffa era pari ad anni tre di reclusione, nel caso in cui il fatto fosse ricaduto sotto la previsione di entrambe le norme incriminatrici, doveva ritenersi configurabile il solo delitto di truffa.

 

Cassazione penale sez. V, 14/09/2017, n.50081

La presentazione per lo sconto presso diversi istituti bancari delle medesime fatture concreta quelle operazioni dolose che inevitabilmente, aumentando il passivo (ottenendo più anticipazioni a fronte del medesimo ed unico credito), conducono all’aggravamento dello stato di dissesto e, quindi, al fallimento. Una simile condotta integra gli elementi costitutivi della bancarotta impropria e non configura la diversa ipotesi del ricorso abusivo al credito, posto che tale fattispecie si concreta nel caso in cui si ottengano finanziamenti dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza, in assenza, quindi, degli ulteriori elementi che caratterizzano il delitto di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, seconda ipotesi, e cioè il cagionare il fallimento attraverso operazioni dolose.

 

Cassazione penale , sez. V , 30/06/2016 , n. 46689

Il ricorso abusivo al credito di cui all’art. 218 l. fall. è reato di mera condotta e richiede che il credito sia stato ottenuto mediante dissimulazione ai danni dell’ignaro creditore, che può quindi assumere il ruolo di persona offesa, e si distingue dal reato di bancarotta impropria mediante operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2 l. fall. (operazioni consistite nell’ottenimento di crediti per mascherare lo stato di insolvenza dell’impresa) nel quale non è necessaria la dissimulazione, e l’operazione – avente rilevanza causale o concausale del dissesto o del suo aggravamento – può anche essere concordata con il creditore a conoscenza delle condizioni dell’impresa.

 

Cassazione penale , sez. V , 23/09/2014 , n. 44857

Il reato di ricorso abusivo al credito richiede che il soggetto al quale viene addebitato sia successivamente dichiarato fallito. Ne consegue che il termine di prescrizione decorre dalla data della dichiarazione di fallimento.

 

Cassazione penale , sez. V , 23/09/2014 , n. 44857

Il fallimento è presupposto necessario per configurare il reato di abusivo ricorso al credito, ovvero il reato che punisce chi continua a chiedere prestiti dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza. Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto il fallimento di un imprenditore condizione necessaria per far scattare il reato, spostando così in avanti il termine della prescrizione, nonostante l’art. 218 l. fall. non faccia riferimento a tale necessità, dando invece un maggior peso al titolo del r.d. n. 267/1942 (capo I, titolo VI) “Reati commessi dal fallito”, dal quale si desume l’intenzione del legislatore di richiedere tale presupposto.

 

By ClaudioRamelli© RIPRODUZIONE RISERVATA