Non sussiste prova del dolo di peculato a carico del medico che esercita in regime intra moenia che trattiene per sè somme esigue rispetto al volume delle prestazioni erogate.
Si segnala ai lettori del blog la sentenza 11003.2020, depositata il 1° aprile 2020, resa dalla VI Sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale il Collegio del diritto, esprimendosi in merito ad un caso di peculato contestato al medico nell’esercizio dell’attività professionale intra moenia allargata, chiarisce il perimetro punitivo del delitto, in particolare soffermandosi sul tema dell’elemento psicologico del reato.
Il reato contestato ed il doppio giudizio di merito
Nel caso di specie, all’imputato, nella qualità di dirigente medico del reparto di ostetricia e ginecologia del presidio ospedaliero, era contestato il reato di peculato continuato, per essersi egli appropriato, nella qualità di incaricato di pubblico servizio, delle somme di denaro non fatturate e non versate all’Azienda sanitaria all’interno della quale il medico svolgeva la propria attività libero professionale.
La Corte di appello di Catania confermava la sentenza di primo grado di condanna dell’imputato per il reato ascrittogli.
Il ricorso per cassazione e la questione di diritto
La difesa del prevenuto interponeva ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado, deducendo, per quanto di maggiore interesse per il presente commento, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento della responsabilità penale del giudicabile, in ragione dell’impossibilità di ravvisare nel caso di specie l’elemento soggettivo del reato.
Secondo la difesa, invero, non è dato ravvisare il dolo in capo al medico, poiché, come emerso in sede di giudizio di merito, la condotta di appropriazione del denaro si è verificata solo in tre casi, a fronte di circa seicento prestazioni professionali, con conseguente irrisorio guadagno da parte del medico.
I Giudici di legittimità, nel ritenere fondato il motivo di ricorso e nell’annullare la sentenza impugnata per la celebrazione di un nuovo giudizio dinanzi ad altra sezione della Corte territoriale, riconoscono il vizio nella motivazione resa dai Giudici di merito e chiariscono la portata dell’elemento psicologico del reato di peculato.
Di seguito si riportano i passaggi più significativi dell’argomentazione della Suprema Corte, tratti dalla parte motiva della relativa pronuncia:
<La correlativa deduzione di occasionalità della condotta delittuosa poggiava sul rilievo che, essendosi in presenza di una mera negligenza, avrebbe dovuto essere esclusa la stessa coscienza e volontà della condotta appropriativa dell’altrui denaro, tenuto conto dell’esiguità delle somme di denaro non versate, del fatto che, alla luce delle risultanze dibattimentali, solo tre pazienti hanno dichiarato di aver saldato quanto dovuto senza ricevere alcuna fattura per le somme corrisposte e dell’assenza di adeguati riscontri sul comportamento dall’imputato tenuto in relazione ai compensi percepiti dalle numerose altre pazienti che hanno ricevuto le sue prestazioni professionali nel corso dell’intero arco temporale fatto oggetto della relativa indagine interna.
A tali deduzioni, per vero, la sentenza impugnata ha dato una risposta contraddittoria, da un lato ammettendo l’assenza di qualsiasi elemento di riscontro, in un senso o nell’altro, per tutti gli altri nominativi dell’elenco delle pazienti visitate, dall’altro lato non escludendo, illogicamente, la presenza dell’eventuale riscontro di anomalie in tali casi.
Né, come fondatamente affermato nel ricorso, è possibile travisare il contenuto delle dichiarazioni rese dall’imputato, ricavandone erroneamente un’implicita ammissione di responsabilità sotto il profilo del dolo, dalla difesa peraltro specificamente contestato, per essersi egli limitato ad affermare, in sede di esame, che “può capitare”, trattandosi di “tre persone in tre anni”, di omettere il versamento di quanto ricevuto, tenuto altresì conto che in termini percentuali la relativa omissione corrisponderebbe, come sopra evidenziato, ad una misura quasi insignificante dei casi complessivamente trattati>.
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La norma incriminatrice:
Art. 314 c.p. – Peculato
Il pubblico ufficiale [357] o l’incaricato di un pubblico servizio [358], che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi [316-bis, 317-bis, 323-bis].
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita [316-bis, 317-bis, 323-bis].
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Quadro giurisprudenziale di riferimento:
Cassazione penale sez. VI, 19/06/2018, n.40908
Il medico che opera in regime di ‘intra moenia’ assume la veste di agente contabile, con conseguente obbligo sia di dover rendere conto dei valori che egli maneggia, che di custodirli e restituirli. Gli importi corrisposti al sanitario nell’esercizio di detta attività acquistano infatti natura pubblica, in virtù della convenzione tra la ASL e il medico dipendente. Integra pertanto il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, non dia giustificazione certa – secondo le norme generali della contabilità pubblica ovvero quelle derogative previste nella singola fattispecie – del loro impiego, in caso di incameramento delle somme.
Cassazione penale sez. VI, 16/03/2017, n.29782
In ordine alla attività professionale svolta intra moenia, integra il reato di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria allargata, dopo aver riscosso l’onorario dovuto per le prestazioni mediche erogate secondo tale regime, ometta poi di versare all’azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene.
Cassazione penale sez. II, 24/04/2018, n.25976
Commette il reato di peculato il medico ospedaliero che percepisce compensi dai pazienti per visite “intramoenia”, senza formale autorizzazione e senza versare alla struttura la quota prevista per legge, a nulla rilevando circa la configurabilità del delitto il fatto che l’azienda fosse a conoscenza di quanto accaduto”. Lo ha ribadito la Cassazione confermando la condanna inflitta ad un medico. Nel caso di specie, si trattava di un cardiologo, assunto a tempo pieno e con impegno esclusivo presso l’ospedale, che per due anni aveva svolto attività intramuraria senza aver richiesto la specifica autorizzazione e senza lasciare nelle casse del nosocomio la quota del 52% di quanto percepito dai pazienti.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA