Risponde di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta chi svolga attività di psicoanalisi senza essere iscritto all’albo dei medici o degli psicologi previo conseguimento del relativo diploma di laurea

Si segnala ai lettori del blog la sentenza numero 13556.2020, depositata il 4 maggio 2020, resa dalla VI Sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale il Collegio del diritto, pronunciandosi in merito ad un caso di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta – nella specie di svolgimento di attività di psicoanalisi, inquadrabile nell’ambito della psicoterapia – ha ritenuto sussistente il reato previsto e punito dall’art. 348 cod. pen. quando l’agente non ha conseguito la specifica formazione di durata almeno quadriennale e non risulta iscritto  nell’albo degli psicologi o dei medici.

Il reato contestato e la doppia conforme di merito

All’imputata, in possesso di laurea in Lettere e diploma biennale su handicap uditivi e visivi, era contestato il reato di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta, per aver svolto colloqui psicologici e di psicoanalisi con una minore, pur essendo priva di laurea in medicina o psicologia e di diploma di specializzazione in psicoterapia e non essendo iscritta all’albo dei medici o degli psicologi.

La Corte di appello di Milano confermava la sentenza con la quale il locale Tribunale condannava la prevenuta per il reato di cui all’art. 348 c.p.

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto

Avverso la decisione della Corte territoriale, la difesa della giudicabile interponeva ricorso per cassazione, deducendo plurimi motivi di impugnazione.

Ai fini del presente commento riveste maggiore interesse il motivo di ricorso relativo all’erronea applicazione della legge penale, avendo l’imputata speso il titolo di psicoanalista, in ragione della corrispondente attività praticata, non qualificabile come psicoterapia.

I Giudici di legittimità, annullano con rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena determinata dai giudice di merito in misura illegale.

IN punto di diritto  rigettano del ricorso, precisando l’inquadramento dell’attività di psicoanalisi in quella di psicoterapia, delineandone i caratteri ed il contenuto, per poi richiamare il consolidato orientamento sedimentato sul tema  dell’esercizio abusivo della professione.

Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dal compendio motivazionale della pronuncia in commento:

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In questa sede deve essere ribadito il principio di diritto già richiamato da questa Corte di legittimità (Sez. 3, n. 22268 del 24/4/08 Caleffi, Rv. 240257-01) secondo cui, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., l’esercizio dell’attività di psicoterapeuta è subordinato ad una specifica formazione professionale della durata almeno quadriennale ed all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici (all’interno dei quali è dedicato un settore speciale per gli psicoterapeuti).

Ciò posto, per rispondere al cuore della reiterata censura, la “psicanalisi”, quale riferibile alla condotta della ricorrente, va intesa come “psicoterapia”, caratterizzata da un percorso, che è anche terapeutico e volto a procurare la guarigione da talune patologie, non potendosi formulare valutazioni meramente astratte, ma dovendosi valorizzare gli elementi dai quali i giudici di merito hanno in concreto dedotto il tipo di trattamento in concreto somministrato dalla ricorrente.

In tale prospettiva sarebbe stata necessaria quell’abilitazione di cui la ricorrente era comprovatamente sprovvista, dovendosi ribadire la metodica utilizzata collegata funzionalmente alla psicoanalisi, deve essere inquadrata nella professione medica o di psicologo, con conseguente configurabilità del contestato reato ex art. 348 c.p. in carenza di condizioni legittimanti tale professione (Sez. 3 n. 17702 del 2004, Bordi, Rv. 228472-01; Sez. 6, n. 14408 del 23/03/2011, Guerra, Rv. 249895-01; Sez. 2, n. 16566 del 07/03/2017 imp. D. F., Rv. 269508-01; Sez. 6, n. 39339 del 28/06/2017, Moccia, Rv. 271083-01; Sez. 6, n. 2691 del 09/11/2017 dep. 22/01/2018, Dus, Rv. 272172-01). Né il sistema può dirsi derogato da un percorso di formazione che il singolo professionista costruisca nell’osservanza di personali e variabili modelli, attraverso l’accesso a stage e master, corsi e diplomi post laurea di vario titolo, che non possono costituire titoli equipollenti alle specifiche lauree di medicina o psicologia. Siffatte modalità contrastano con l’affermazione realizzatasi nel succedersi della normativa di settore, di un “modello legale” dettato a garanzia della formazione, nell’osservanza di tipicità e generalità dei contenuti e dei titoli>.

La norma incriminatrice:

Art. 348 c.p. – Esercizio abusivo di una professione

Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata.

Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo.

 

Quadro giurisprudenziale di riferimento:

Cassazione penale sez. VI, 28/06/2017, n.39339

Integra il reato di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta qualunque attività, svolta da un soggetto non qualificato, che, a prescindere dall’impiego di una delle metodologie proprie di tale professione, abbia come presupposto la diagnosi di disturbi psichici del paziente e come obbiettivo la loro cura.

Cassazione penale sez. II, 07/03/2017, n.16566

In tema di abusivo esercizio di una professione, l’art. 348 cod. pen. è norma penale in bianco, in quanto presuppone l’esistenza di altre norme volte a determinare le professioni per le quali è richiesta la speciale abilitazione dello Stato e l’iscrizione in un apposito albo, con la conseguenza che, saldandosi dette norme con la previsione penale, resta esclusa alcuna violazione dei principi di determinatezza e tassatività della fattispecie. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che la prestazione, da parte di un soggetto privo di titoli abilitativi, di consulenze per problemi caratteriali e relazionali, sostenute da percorsi terapeutici, sedute, colloqui e pratiche ipnotiche, costituisse esercizio abusivo della professione di psicologo psicoterapeuta, cui gli artt. 1 e 3 l. n. 56 del 1989 espressamente riservano le attività di abilitazione e sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona).

Cassazione penale sez. II, 15/11/2011, n.43328

Integra il reato di esercizio abusivo della professione lo svolgimento dell’attività di psicoterapeuta in assenza dei necessari titoli, essendo lo stesso subordinato ad una specifica formazione professionale e all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici.

Cassazione penale sez. VI, 23/03/2011, n.14408

Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p. l’esercizio della attività di psicoterapeuta è subordinato a una specifica formazione professionale della durata almeno quadriennale e all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici (all’interno dei quali è dedicato un settore speciale per gli psicoterapeuti). Ciò posto, la psicanalisi è pur sempre una psicoterapia che si distingue dalle altre per i metodi usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali. Ne consegue che l’attività dello psicanalista non è annoverabile fra quelle libere previste dall’art. 2231 c.c. ma necessita di particolare abilitazione statale. Né può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica, con conseguente configurabilità del contestato reato ex art. 348 c.p. in carenza delle condizioni legittimanti tale professione.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA