Concorre nel reato di esercizio abusivo della professione il direttore sanitario che consenta al collaboratore non autorizzato di effettuare prestazioni mediche che richiedono titolo abilitativo e specifica competenza professionale

Si segnala ai lettori del blog la sentenza numero 21989.2020, resa dalla VI Sezione penale della Corte di Cassazione, pronunciatasi in merito ad un caso di esercizio abusivo della professione medica ascritto – a titolo di concorso –  al direttore sanitario di uno studio ove venivano erogate alla clientela cure odontoiatriche.

In particolare, con la sentenza in commento, la Suprema Corte valida il principio della responsabilità penale del direttore sanitario, rientrante nel fatto tipico previsto e punito dall’art. 348 cod. pen., laddove venga acquista  la prova della violazione  dell’obbligo di verificare il possesso da parte dei collaboratori dello studio medico dei titoli formali che abilitano l’esercizio dell’attività di branca specialistica, nonché delle conoscenze minimali richieste al professionista sanitario.

La sentenza è di particolare interesse non solo perché afferma il superiore principio ma anche per l’ulteriore profilo di potenziale responsabilità per i reati colposi di evento (lesioni ed omicidio colposo) per i quali può essere fatta valere la cooperazione colposa del direttore sanitario con il medico che esegue direttamente la prestazione professionale, se manca la verifica della competenza professionale sia in senso formale (titolo abilitativo) sia in senso  sostanziale (capacità professionale e adeguatezza ad eseguire la prestazione).

 

Il reato contestato e il doppio giudizio di merito.

Nel caso di specie all’imputato, nella qualità di direttore sanitario dello studio dentistico, era stato contestato il delitto di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p., per aver consentito alla collaboratrice, priva di abilitazione, di effettuare trattamenti odontoiatrici.

Il Tribunale di Milano condannava il prevenuto per l’illecito penale ascrittogli.

La Corte territoriale, pur rilevata l’intervenuta prescrizione del delitto contro la pubblica amministrazione, confermava le statuizioni civili disposte dal primo giudice, disattendendo le argomentazioni della difesa in ordine alla lamentata insussistenza del fatto di reato

 

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto.

La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, articolando plurimi motivi di impugnazione.

In particolare, il ricorrente, deduceva la violazione degli artt. 40, 348 c.p., ritenendo che la condanna inflitta per violazione del dovere di vigilanza, abbia reso punibile il giudicabile a titolo di colpa anziché per fatto cosciente e volontario (dolo) richiesto dalla norma incriminatrice.

La Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso inammissibile, richiama, facendone applicazione al caso di specie, i consolidati principi di diritto in materia di esercizio abusivo della professione.

Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla parte motiva della pronuncia in commento:

“La fattispecie criminosa regolata dall’art. 348 c.p. non è, infatti, un reato di evento che taluno debba impedire poiché trattasi di reato istantaneo, solo eventualmente abituale; sicché il professionista abilitato non versa in posizione di garanzia rispetto al reato commesso da altri che egli sappia non essere munito di abilitazione, rendendosi soltanto necessario accertare la consapevolezza di tale circostanza e il connesso assenso anche tacito all’esecuzione di atti professionali da parte del terzo non abilitato (Sez. 6, n. 42174 del 23/10/2012). Risponde perciò a titolo di concorso nel delitto di esercizio abusivo di una professione il professionista abilitato che consenta o agevoli lo svolgimento di attività professionale da parte di soggetto non autorizzato (Sez. 6, n. 22534 del 12/05/2015).

Sotto diverso profilo, il responsabile di uno studio medico (nella specie direttore sanitario), per la peculiarità della funzione posta a tutela di un bene primario, ha l’obbligo di verificare, in via prioritaria ed assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l’attività per cui essi risultano abilitati, ma ha altresì l’ulteriore, concorrente e non meno rilevante, obbligo di verificare in concreto, che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di “conoscenze e manualità minimali”, conformi alla disciplina ed alla scienza medica in concreto praticate.

Quindi, una volta accertato il mancato rigoroso adempimento degli obblighi di verifica formale dei titoli abilitanti il concreto esercizio della professione, il direttore dello studio medico, non solo risponde del concorso nel reato di cui all’art. 348 cod. pen. con la persona non titolata, ma risponde del pari ex art. 113 cod. pen. degli illeciti, prevedibili secondo l'”id quod plerumque accidit” e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore dello studio la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata (Sez. 6, n. 21220 del 24/04/2013).

La norma incriminatrice:

Art. 348 c.p. – Esercizio abusivo di una professione

Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello Stato e’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attivita’, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attivita’ regolarmente esercitata.

Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attivita’ delle persone che sono concorse nel reato medesimo.

 

Quadro giurisprudenziale di riferimento:

Cassazione penale sez. VI, 23/03/2018, n.14501

Non è applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto al direttore sanitario di uno studio dentistico che, in concorso con un odontotecnico, fornisca nel proprio studio prestazioni odontoiatriche in assenza di abilitazione, posto che la ripetitività della condotta e la pluralità degli atti tipici sono di per sé ostativi al riconoscimento della stessa.

 

Cassazione penale sez. VI, 07/10/2016, n.48948

Non può evocare l’esimente dell’avere agito in stato di necessità, ex art. 56 c.p., e risponde di concorso in esercizio abusivo della professione medica, ai sensi dell’art. 348 c.p., il direttore sanitario di un ambulatorio odontoiatrico che abbia consentito ad un soggetto non abilitato di eseguire un intervento su di un paziente in assenza di riscontri circa l’estrema urgenza e indifferibilità dell’intervento medesimo, essendosi, di contro, accertato che, nell’assenza del titolare, oltre al paziente in discussione, altri pazienti si trovano simultaneamente in attesa nello studio dentistico, uno dei quali era lì giunto per via di un appuntamento concordato direttamente con l’imputato.

 

Cassazione penale sez. VI, 12/05/2015, n.22534

Risponde a titolo di concorso nel delitto di esercizio abusivo di una professione il professionista abilitato che consenta o agevoli lo svolgimento di attività professionale da parte di soggetto non autorizzato.

 

Cassazione penale sez. VI, 24/04/2013, n.21220

In tema di cooperazione nel delitto colposo, perché la condotta di ciascun concorrente risulti rilevante ai sensi dell’art. 113, c.p., occorre che essa, singolarmente considerata, violi la regola di cautela, e che tra le condotte medesime esista un legame psicologico. Il responsabile di uno studio medico (nella specie direttore responsabile della struttura medica), per la peculiarità della funzione posta a tutela di un bene primario, giusta testuale disposto dell’art. 33 della Carta costituzionale, ha l’obbligo di verificare, in via prioritaria ed assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l’attività per cui essi risultano abilitati, ma ha altresì l’ulteriore, concorrente e non meno rilevante, obbligo di verificare in concreto, che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di “conoscenze e manualità minimali”, conformi alla disciplina ed alla scienza medica in concreto praticate. Una volta accertato il mancato rigoroso adempimento degli obblighi di verifica formale dei titoli abilitanti il concreto esercizio della professione, il direttore dello studio medico, non solo risponde del concorso nel reato di cui all’art. 348 c.p., con la persona non titolata, ma risponde del pari, ex art. 113 c.p., degli illeciti, prevedibili secondo l’“id quod plerumque accidi”t e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata.

 

Cassazione penale sez. VI, 23/10/2012, n.42174

Risponde, a titolo di concorso, del delitto di esercizio abusivo di una professione, chiunque consenta o agevoli lo svolgimento da parte di persona non autorizzata di un’attività professionale, per la quale sia richiesta una speciale abilitazione dello Stato (riconosciuta la responsabilità di un direttore sanitario, accusato di abusivo esercizio di una professione in concorso con l’autore materiale del fatto, un odontotecnico che aveva prestato cure odontoiatriche a due pazienti).

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA