Lo stato dell’arte sulla tutela penale e civile del mobbing.
Si segnala ai lettori del blog il presente contributo che nasce dalla esperienza maturata dallo Studio Ramelli in materia di tutela dei diritti della persona in ambito lavorativo che possono formare oggetto di tutela giurisdizionale nelle competenti sedi (penale o civile) in relazione al grado di disvalore giuridico che assume la condotta vessatoria esercitata dalla parte datoriale o dai colleghi di lavoro sulla vittima che ne subisce le conseguenze.
L’azione illecita in sede penale o quando illegittima in sede civile, nel linguaggio comune viene qualificata come mobbing, che secondo la più recente elaborazione giurisprudenziale può essere definito come una mirata reiterazione di comportamenti aggressivi e persecutori, che di per sé possono essere leciti o illeciti, esercitati sul posto di lavoro da superiori o colleghi nei confronti di un individuo, posti in essere in maniera sistematica e continuativa in un arco temporale più o meno ristretto e preordinati ad esprimere ostilità e a mortificare o emarginare la vittima.
Elementi caratterizzanti del mobbing:
Il fenomeno è dunque connotato da due elementi essenziali:
– l’elemento oggettivo della reiterazione di condotte vessatorie e persecutorie lesive della sfera psichica della vittima;
– l’elemento soggettivo dell’intenzione di provocare uno stato di prostrazione psicologica nella vittima.
Nello specifico, nell’ambito della tutela penalistica delle vittime di mobbing, la giurisprudenza ha ricostruito gli elementi caratterizzanti il fenomeno, quali:
- a) il requisito materiale della reiterazione di comportamenti persecutori posti in essere sistematicamente e continuativamente nel tempo in danno della vittima;
- b) la lesione del bene giuridico della salute, personalità o dignità della vittima;
- c) il nesso causale tra la condotta vessatoria e il pregiudizio subito dalla vittima;
- d) l’elemento psicologico dell’intento vessatorio dell’agente, tale da unificare tutti i singoli comportamenti persecutori.
Tipologie di mobbing:
Esistono diverse tipologie di mobbing, a seconda della posizione rivestita nell’ambiente di lavoro dai soggetti coinvolti e dalle motivazioni del mobber:
(i) Mobbing verticale, che coinvolge soggetti collocati in distinti livelli dell’organigramma aziendale, che a sua volta può essere:
- discendente, laddove il comportamento vessatorio o persecutorio sia posto in essere dal datore di lavoro o da altro superiore gerarchico nei confronti del dipendente. Si tratta della tipologia più frequente;
- ascendente, laddove il comportamento vessatorio o persecutorio sia posto in essere dal dipendente nei confronti del datore di lavoro o di altro superiore gerarchico. Si tratta della tipologia meno frequente, che può verificarsi ad esempio nel contesto di crisi d’azienda;
(ii) Mobbing orizzontale, che coinvolge colleghi, dunque tra soggetti posti in posizione paritaria.
Categoria rilevante dal punto di vista civilistico è poi lo straining, fenomeno simile al mobbing, ma dal quale si differenzia per caratteristiche strutturali.
Mentre il mobbing si connota per la sistematicità dei comportamenti vessatori e per l’intento persecutorio unificatore delle condotte, lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing, in quanto esso può ricorrere anche in presenza di singoli episodi vessatori, tali da cagionare stress e disagi psicologici nel dipendente, pur in assenza di un intento vessatorio, con conseguente diritto al risarcimento del danno alla salute in tal modo sofferto.
La tutela penalistica del mobbing
Poiché nel nostro ordinamento non esiste una specifica figura di reato, la giurisprudenza ha tentato di inquadrare il fenomeno del mobbing, a seconda delle particolarità del caso concreto, nell’ambito delle già codificate fattispecie di reato.
Alla luce degli elementi essenziali del fenomeno, quali la reiterazione di condotte vessatorie e l’intento persecutorio dell’agente, le fattispecie incriminatrici più affini ed utilizzate nella qualificazione giuridica dei fatti risultano essere:
1) maltrattamenti contro familiari e conviventi puniti dall’ art. 572 c.p.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla meta’ se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto e’ commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Per quanto concerne questa fattispecie di reato, il fenomeno del mobbing, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, può essere ricondotto nell’alveo del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, laddove le situazioni lavorative siano assimilabili a quelle di una “famiglia”, ossia qualora i rapporti di lavoro, in ragione dell’intensità ed abitualità, assumano natura “parafamiliare”.
Di seguito si riporta una rassegna ragionata dei più significativi approdi giurisprudenziali:
Cassazione penale sez. VI, 07/06/2018, n.39920
Requisito della parafamiliarità del rapporto di lavoro ai fini della responsabilità del mobber a titolo di maltrattamenti in famiglia
È essenziale il requisito della para-famigliarità del rapporto per configurare il reato di maltrattamento in famiglia in ambito lavorativo (nella specie, l’imputato, nella sua qualità di notaio e datore di lavoro della vittima, dipendente dello studio notarile e sua cognata era accusato del reato di maltrattamenti in famiglia in ambito lavorativo).
Cassazione penale sez. VI, 13/02/2018, n.14754
Esclusione del reato di maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi di mobbing perpetrato dal superiore gerarchico ai danni di un appuntato dei Carabinieri
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri).
Cassazione penale sez. II, 06/12/2017, n.7639
Mobbing e maltrattamenti in famiglia: requisito dei rapporti parafamiliari
Gli atti persecutori realizzati in danno del lavoratore dipendente e finalizzati alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudine di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto debole del rapporto in quello che riveste la posizione di supremazia, e come tale, destinatario di obblighi di assistenza verso il primo.
Cassazione penale sez. VI, 28/09/2016, n.51591
Il requisito del rapporto di lavoro parafamiliare
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo, a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia.
Cassazione penale sez. VI, 01/06/2016, n.26766
Il requisito del rapporto di lavoro parafamiliare
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole dei rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (nella specie, relativa ai rapporti tra i gestori di una ricevitoria e una loro dipendente, qualificabili in termini di lavoro subordinato, non ricorreva quel nesso di supremazia -soggezione che ha esposto la parte offesa a situazioni assimilabili a quelle familiari).
Cassazione penale sez. VI, 26/02/2016, n.23358
Mobbing e maltrattamenti in famiglia
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cassazione penale sez. VI, 15/09/2015, n.44589
Mobbing e relazioni parafamiliari
Le pratiche persecutorie finalizzate all’emarginazione del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Non occorre, pertanto, che ricorrano le condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.
Cassazione penale sez. VI, 23/06/2015, n.40320
Maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi di condotte discriminatorie tendenti al demansionamento del medico ospedaliero da parte del primario
La configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro (c.d. “mobbing”), non può essere aprioristicamente esclusa nel caso di rapporti di lavoro intercorrenti tra professionisti di elevata qualificazione, in quanto l’insussistenza di un rapporto para-familiare non può essere desunta dal dato – meramente quantitativo – costituito dal numero dei soggetti operanti nell’organizzazione in cui siano commesse le condotte vessatorie, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, cioè sulla natura dei rapporti intercorrenti tra superiore e sottoposto (nello specifico la Suprema Corte ha ritenuto plausibile lo stato di soggezione psicologica previsto dalla fattispecie incriminatrice in cui versava un medico ospedaliero nei confronti del primario che aveva posto in essere iniziative discriminatorie tendenti al suo demansionamento).
Cassazione penale sez. VI, 11/04/2014, n.24057
Maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi di condotte vessatorie da parte del titolare dell’impresa agricola nei confronti dei dipendenti ospitati nella struttura
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata ritenuta la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal titolare di un’impresa agricola nei confronti di alcuni dipendenti di nazionalità rumena ospitati nella struttura, e ridotti in una situazione di estremo disagio quanto al vitto, all’alloggio ed alle condizioni igieniche).
Cassazione penale sez. VI, 08/04/2014, n.18832
Maltrattamenti in famiglia: natura parafamiliare del rapporto di lavoro
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare.
Cassazione penale sez. VI, 19/03/2014, n.24642
Maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi di condotte vessatorie del sindaco in danno del funzionario comunale
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale).
Cassazione penale sez. VI, 05/03/2014, n.13088
Mancanza del requisito della parafamiliarità dei rapporti lavorativi nell’ambito dello stabilimento di grandi dimensioni.
Non ogni fenomeno di mobbing – e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio – attuato nell’ambito di un ambiente lavorativo può integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (“mobbing”) si inquadrino in un rapporto tra datore di lavoro e il dipendente capace di assumere una “natura para-familiare”, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte, annullando senza rinvio la sentenza di condanna, ha escluso il reato di maltrattamenti in famiglia, apprezzando che i fenomeni incriminati si erano svolti in uno stabilimento di notevoli dimensioni ove erano presenti circa cinquanta dipendenti; secondo la Cassazione, semmai, si sarebbero potuti apprezzare gli estremi di altri reati, quali quelli di lesioni personali, di minaccia, di ingiuria e di violenza privata, eventualmente aggravati dall’abuso di relazioni d’ufficio o di prestazione di opera, peraltro ormai prescritti).
Cassazione penale sez. VI, 11/04/2012, n.16094
Non risponde di maltrattamenti in famiglia il vice presidente di un Ater per condotte vessatorie poste in essere in danno della dipendente
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un Ater nei confronti di una dipendente).
Cassazione penale sez. VI, 10/10/2011, n.43100
Non risponde di maltrattamenti in famiglia il sindaco che ponga in essere condotte vessatorie in danno del dipendente comunale
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art. 572 c.p.).
2) atti persecutori ex art. 612 bis c.p.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
Per quanto riguarda la fattispecie di atti persecutori, ricorre in entrambe le ipotesi l’elemento strutturale della reiterazione di comportamenti e l’intento persecutorio, anche se, dal punto di vista fenomenologico, le situazioni sono inverse, poiché lo stalker cerca una relazione con la vittima, laddove quest’ultima la respinge; al contrario, il mobber mira ad emarginare la vittima, laddove questa tenta di mantenere il rapporto lavorativo.
Differenze, queste, che rischiano di determinare un’applicazione analogica della norma sugli atti persecutori nei casi di mobbing.
Di seguito si riporta una rassegna ragionata dei più significativi approdi giurisprudenziali:
Cassazione penale sez. V, 14/09/2020, n.31273
Risponde di atti persecutori il datore di lavoro che ponga in essere reiterati atteggiamenti ostili preordinati alla mortificazione e all’isolamento del dipendente, così realizzando uno degli eventi di cui all’art. 612 bis c.p.
Integra il delitto di atti persecutori la condotta di “mobbing” del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilita` verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, tali da determinare un “vulnus” alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p. (Fattispecie in cui il lavoratore era stato esposto a plurimi atti vessatori, quali il fisico impedimento a lasciare la sede di lavoro e l’abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, tale da far insorgere nello stesso uno stato di ansia e di paura ed indurlo a modificare le proprie abitudini di vita).
Cassazione penale sez. V, 30/05/2017, n.34836
Responsabilità del datore di lavoro a titolo di atti persecutori
È configurabile il reato di atti persecutori anche nei confronti di un dipendente. E se il rapporto di lavoro è pubblico, scatta la responsabilità dell’ente in solido con lo stalker per i danni subiti dalla vittima. Ad affermarlo è la Cassazione per la quale è, dunque, da considerare stalking la persecuzione professionale del dipendente da parte del datore di lavoro o di un suo superiore. Nel caso di specie, si trattava del responsabile del servizio cultura di un comune addetto alla gestione della biblioteca il quale aveva posto in essere una persecuzione professionale tradottasi in violenze morali e atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale. Per la Corte, anche se parte delle azioni persecutorie erano state messe in atto durante la pausa pranzo o al di fuori dell’orario di lavoro, l’esercizio delle funzioni pubbliche ha agevolato il danno nei confronti della persona offesa e, perciò, sussiste la responsabilità del comune.
La giurisprudenza ha poi ricondotto il mobbing, a seconda delle particolarità del caso concreto, ad altre fattispecie penali, quali, a titolo esemplificativo:
(i) Abuso d’ufficio, laddove il mobber-datore di lavoro rivesta qualifica pubblicistica (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio).
Art. 323 c.p. – Abuso d’ufficio
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.
(ii) Percosse, nel caso in cui la condotta vessatoria del mobber si estrinsechi nell’uso della forza fisica.
Art. 581 c.p. – Percosse
Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente [582], è punito, a querela della persona offesa [120], salvo che ricorra la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, numero 11 -octies ), con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a 309 euro [1151 c. nav.].
Tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato [294, 336, 337, 338, 3414, 3424, 3433, 353, 3852, 3863, 393, 4052, 5072, 584, 588, 610, 611, 6144, 628, 629, 634, 6352 n. 1].
(iii) Lesioni personali dolose o colpose, laddove la condotta del mobber leda l’integrità psico-fisica della vittima, provocandole una malattia del corpo o della mente.
In particolare, l’ipotesi di lesioni colpose può essere addebitata al datore di lavoro che abbia omesso di vigilare sulle condizioni di lavoro, con conseguente lesione della salute del dipendente.
Art 582 c.p. – Lesione personale
Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni [585, 586; 3812f, 3, 4 c.p.p.; 1151 c. nav.].
Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 61, numero 11 -octies, 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima parte dell’articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa [120].
Art. 590 c.p- – Lesioni personali colpose
Chiunque cagiona ad altri per colpa [43] una lesione personale [582] è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro.
Se la lesione è grave [5831] la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 123 euro a 619 euro; se è gravissima [5832], della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da 309 euro a 1.239 euro.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena per lesioni gravi e’ della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per lesioni gravissime e’ della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa [120], salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
(iv) Diffamazione, laddove il comportamento vessatorio si estrinsechi nella lesione dell’onore e della reputazione professionale della vittima.
Art. 595 c.p. – Diffamazione
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro (1).
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58-bis, 596-bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità [615-bis], ovvero in atto pubblico [2699 c.c.], la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio [342], le pene sono aumentate [64, 596-599].
(v) Violenza sessuale, nei casi in cui i comportamenti persecutori involgano la sfera sessuale della vittima, ledendone la libertà.
Art. 609 bis c.p. – Violenza sessuale
Chiunque [609-septies4 nn. 2-3] con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni [609-nonies; 38 c.p.p.].
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto [609-quater, 609-sexies, 609-decies];
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona [609-septies].
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
(vi) Violenza privata, qualora la condotta vessatoria dell’agente abbia costretto la vittima a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe assunto (si pensi, a titolo esemplificativo, al datore di lavoro che costringa il lavoratore ad accettare un demansionamento o altri svantaggiosi mutamenti delle condizioni di lavoro o anche a rendere le dimissioni).
Art. 610 c.p. – Violenza privata
Chiunque, con violenza [5812] o minaccia [612], costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.
La pena è aumentata [64] se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.
(vii) Minaccia, nell’ipotesi in cui il mobber arrivi a prospettare alla vittima futuri danni ingiusti.
Art. 612 c.p. – Minaccia
Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa [120], con la multa fino a euro 1.032.
Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno [e si procede d’ufficio].
Si procede d’ufficio se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339.
(viii) Estorsione, laddove il datore di lavoro, per perseguire vantaggi, costringa il lavatore a tenere un certo comportamento, in suo danno.
Art. 629 c.p. – Estorsione
Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.
- La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.
(ix). Molestia, nei casi meno gravi.
Art. 660 c.p. – Molestia o disturbo alle persone
Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro [659, 688].
Di seguito si riporta una rassegna ragionata dei più significativi approdi giurisprudenziali:
Cassazione penale sez. II, 14/04/2016, n.18727
Responsabilità a titolo di estorsione del datore di lavoro-mobber
Integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato.
Cassazione penale sez. VI, 29/09/2015, n.45077
Riconducibilità delle condotte di mobbing alle corrispondenti fattispecie di reato
La figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del cd. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc.), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio.
Cassazione penale sez. VI, 28/03/2013, n.28603
I disturbi ansioso-depressivi della vittima del mobbing possono integrare il reato di lesioni personali
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p., anche nel testo modificato dalla l. n. 172 del 2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali).
Cassazione penale sez. VI, 25/11/2010, n.44803
Risponde di violenza privata aggravata dall’abuso di relazioni prestazioni d’opera il datore di lavoro che costringa il lavoratore a tollerare lo stato deprezzamento delle qualità lavorative
Perché sia configurabile il reato di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) occorre un rapporto tra soggetto agente e soggetti passivi caratterizzato da un potere autoritativo esercitato, di fatto o di diritto, dal primo sui secondi, i quali, specularmente versano in una condizione di apprezzabile soggezione e tale situazione non si riscontra nelle ipotesi di mobbing, alle quali pertanto non è applicabile la norma citata. La condotta moralmente violenta e psicologicamente minacciosa, idonea a costringere il lavoratore a tollerare uno stato di deprezzamento delle sue qualità lavorative integra il delitto di violenza privata aggravato dall’abuso di relazioni di prestazioni d’opera ex art. 61 n. 2 c.p.
Cassazione penale sez. IV, 09/04/2009, n.23923
Configurabilità dei reati di minaccia e lesioni colpose nelle condotte di mobbing
Provocare ansia e stress nel dipendente con comportamenti ingiuriosi e minacciosi è una forma di mobbing che, come tale, va risarcita indipendentemente dalla responsabilità penale per i reati commessi (nella specie, la Corte ha confermato il verdetto d’appello che aveva condannato un dirigente di un ufficio giudiziario a risarcire gli stati ansiosi e depressivi provocati dalla sua condotta aggressiva nei confronti di una cancelliera, nonostante i reati di cui era stato accusato – ingiuria, minaccia e lesioni personali colpose – si fossero prescritti).
Cassazione penale sez. VI, 18/03/2009, n.28553
La legittimità delle iniziative disciplinari adottate non esclude il mobbing
La condotta vessatoria integrante “mobbing” non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati. (Fattispecie nella quale, in fase cautelare, l’indagato, direttore generale di un’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani è stato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti, lesioni personali e violenza privata).
Cassazione penale sez. VI, 17/10/2007, n.40891
Risponde di abuso d’ufficio il sindaco che ponga in essere condotte di mobbing volte a dequalificare e demansionare il dipendente
È ravvisabile il reato di abuso d’ufficio nella condotta del sindaco di un comune che, in violazione della disciplina normativa di settore (all’epoca, quella di cui all’art. 56 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, recepita nei contratti collettivi di lavoro), abbia adibito un dipendente allo svolgimento di mansioni inferiori, con modalità tali da aver posto in essere gli estremi del mobbing, arrecando in tal modo intenzionalmente a tale lavoratore un danno ingiusto, sostanziatosi nella dequalificazione professionale del dipendente.
Cassazione penale sez. V, 09/07/2007, n.33624
Mobbing e lesioni personali: è necessaria la reiterazione delle condotte di mobbing
Non è in grado di integrare la condotta del delitto di lesioni personali, con effetti sulla sfera psichica della persona offesa, una singola ingiuria, un generico atteggiamento di intimidazione o una sola dichiarazione a carattere diffamatorio. Fattispecie relativa a un caso di mobbing ascritto a carico del preside di una scuola pubblica di istruzione secondaria. La Suprema Corte ha confermato la correttezza e logicità della parte motiva della sentenza di non luogo a procedere del g.i.p., connessa alla assoluta mancanza di prova della lesione psichica e all’assoluta inidoneità della condotta come contestata dalla pubblica accusa.
Cassazione penale sez. VI, 08/03/2006, n.31413
Mobbing e violenza privata
La condotta del datore di lavoro e del dirigente che, al fine di estromettere il lavoratore dal posto di lavoro, pongano in essere nei suoi confronti comportamenti vessatori, con carattere sistematico e duraturo (cd. mobbing), può integrare il delitto di violenza privata, quantomeno allo stadio del tentativo.
La tutela civilistica
Oltre alla tutela tutelabile in sede penale, il lavoratore vittima di mobbing può pur sempre azionare i rimedi civilistici volti ad ottenere il risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento contrattuale o extracontrattuale del mobber.
Responsabilità del mobber-datore di lavoro
Nel caso in cui il mobber sia il datore di lavoro, il dipendente può agire nei suoi confronti sul piano della responsabilità contrattuale.
La norma di riferimento è infatti l’art. 2087 c.c., che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Si rende dunque inadempiente all’obbligazione posta dall’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che ponga in essere atti vessatori nei confronti del dipendente, ovvero, che ometta di vigilare e prevenire le condotte di mobbing realizzate da altri lavoratori nei confronti della vittima.
Il danneggiato, a sostegno della domanda di risarcimento del danno, ha l’onere di allegare i comportamenti vessatori subiti, il danno patito e il nesso causale tra il pregiudizio e la condotta inadempiente del mobber; questi, a sua volta, deve dimostrare di aver adottato le misure necessarie a proteggere l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente o di non aver potuto adempiere alla propria obbligazione per cause non imputabili alla propria volontà.
Sul piano extracontrattuale invece la responsabilità del datore di lavoro per il danno subito dal lavoratore può fondarsi sull’art. 2049 c.c., per il fatto illecito del dipendente.
Responsabilità del mobber-dipendente
Laddove il mobber sia un collega, la responsabilità civile è di tipo extracontrattuale e la norma di riferimento è quella generale dell’art. 2043 c.c.
In questo caso il lavoratore ha l’onere di provare il fatto dannoso, il danno subito e il nesso causale tra fatto e danno, nonché, sul piano psicologico, la condotta dolosa del mobber.
La rassegna delle più significative massime in materia di tutela civilistica del mobbing:
Cassazione civile sez. lav., 20/01/2020, n.1109
Configurabilità del mobbing orizzontale addebitabile al datore di lavoro
Ai fini della configurabilità del “mobbing orizzontale”, addebitabile in astratto al datore di lavoro quale condotta omissiva in violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente prova liberatoria a suo carico ex art. 1218 c.c., è necessario che il datore medesimo abbia avuto conoscenza dell’attività persecutoria, quindi necessariamente dolosa, posta in essere dai propri dipendenti nel contesto dell’ordinaria attività di lavoro.
Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, n.24883
Straining: responsabilità del datore di lavoro per le condizioni di lavoro “stressogene”
Il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative « stressogene » (c.d. straining), e a tal fine il giudice di merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di « mobbing », è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti, possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 27/02/2019, n.5749
Riparto dell’onere probatorio per il risarcimento del danno alla salute del lavoratore
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Cassazione civile sez. lav., 20/06/2018, n.16256
In caso di insussistenza dell’intento persecutorio tipico del mobbing, il giudice deve valutare l’eventuale natura vessatoria del singolo comportamento
Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
Cassazione civile sez. lav., 29/03/2018, n.7844
Lo stress forzato produce un danno alla salute risarcibile
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative ‘stressogene’ (cd. ‘straining’). A tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di ‘mobbing’, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 19/02/2018, n.3977
Stress forzato e straining
Lo stress forzato inflitto al lavoratore dal superiore gerarchico configura una forma attenuata di mobbing definita straining, che giustifica la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c
Cassazione civile sez. lav., 15/11/2017, n.27110
Esclusione del mobbing se i comportamenti vessatori non risultano unificati da un intento persecutorio
Il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem laedere, sia pure nel più ampio contesto di cui all’art. 2087 c.c.. la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Cassazione civile sez. lav., 16/10/2017, n.24358
Esclusione del mobbing in assenza di comportamenti sistematici
L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. “mobbing” e che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. consiste nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (esclusa, nella specie, la sussistenza del mobbing, atteso che i comportamenti denunciati, non avevano il carattere di sistematicità, presentandosi al contrario del tutto diluiti in un ampio lasso temporale).
Cassazione civile sez. lav., 03/03/2016, n.4222
Responsabilità contrattuale del mobber-datore di lavoro
Il c.d. danno da mobbing appartiene alla categoria della responsabilità contrattuale. Infatti in base all’art. 2087 c.c. tra le obbligazioni contrattuali poste a carico del datore durante un rapporto di lavoro vi è anche quella di garantire l’integrità psicofisica del lavoratore.
La natura contrattuale e non oggettiva di tale responsabilità comporta che il datore di lavoro non risponde delle condotte persecutorie perpetrate dai colleghi della vittima o dai suoi superiori qualora riesca a dimostrare la non imputabilità del danno.
Cassazione civile sez. lav., 19/02/2016, n.3291
In caso di esclusione del mobbing il giudice deve verificare l’eventuale configurazione dello straining
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 03/07/2015, n.13693
Onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing
In tema di responsabilità del datore di lavoro per ‘mobbing’, il lavoratore non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro, ma è comunque soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate.
Cassazione civile sez. lav., 15/05/2015, n.10037
Mobbing: responsabilità del datore di lavoro ex art. 2049 c.c.
In tema di “mobbing” la circostanza che la condotta provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. (Nella specie, relativa a dipendente comunale, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la responsabilità solidale dell’ente territoriale in considerazione della durata e delle modalità della condotta mobbizzante, tali da far ritenere che di essa fosse a conoscenza anche l’organo politico).
Cassazione civile sez. lav., 23/01/2015, n.1258
Prova delle condotte di mobbing
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente.
Cassazione civile sez. lav., 25/07/2013, n.18093
Mobbing e risarcimento del danno
In tema di mobbing deve essere riconosciuto al lavoratore, vittima di vessazioni da parte di un collega, il danno morale quantificato equitativamente. Il datore di lavoro, provata la sua conoscenza dell’intera condotta illecita tenuta dal dipendente, viene, dunque, ritenuto responsabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2087 e 2049 c.c., del danno non patrimoniale subito dal ricorrente. Tale conclusione deriva da un’attenta analisi e precisa applicazione anche di istituti prettamente laburistici, quali il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare e i limiti della responsabilità del datore ex art. 2087 c.c.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA