L’alienazione del ramo di azienda a prezzo irrisorio eseguita in favore di società non operativa integra il reato di sottrazione dal pagamento delle imposte.

Si segnala ai lettori del blog la recente sentenza di legittimità numero 35983.2020 resa dalla Corte di Cassazione nel caso di specie chiamata a scrutinare un’ipotesi di reato sottrazione fraudolenta dal pagamento delle imposte, consumato tramite lo strumento giuridico della cessione di ramo di azienda.

La sentenza è di estremo interesse per gli operatori di diritto che si occupano della materia dei reati fiscali perché il Supremo Consesso nel dirimere il caso di specie, traccia lo stato attuale dei più recenti approdi giurisprudenziali sedimentati intorno al reato oggetto di scrutinio.

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare l’area del sito dedicata alla fattispecie prevista e punita dall’art. 11 d.lgs. 74/2000.

 

L’imputazione ed  il doppio grado di merito

All’imputato, tratto a giudizio nella qualità di legale rappresentante della società cedente, era stato contestato dalla locale Procura della Repubblica il reato previsto e punito dall’art.11 d.lgs 74/2000 assumendo che il negozio giuridico –  cessione di ramo di azienda effettivamente posto in essere –doveva considerarsi come atto simulato il cui scopo era solo quello di disperdere le garanzie in danno dell’Ente riscossore, tenuto conto che la società che alienava il ramo di azienda, già prima del negozio giuridico,  risultava debitrice di un consistente importo verso l’Erario.

 

Il giudizio di legittimità e il principio di diritto

Il reato per il quale l’imputato ha riportato condanna nel doppio grado di merito è stato ritenuto consumato anche all’esito della disamina della Suprema Corte che ha dichiarato inammissibile il ricorso affidato dalla difesa dell’imputato a plurimi motivi interposti contro la sentenza  resa in grado di appello.

Di seguito si riportano i passaggi motivazionali della sentenza in commento di interesse per il presente commento  che disegnano la struttura del reato e la qualificazione giuridica del fatto concreto:

(i) Raffronto tra la nuova e la vecchia norma incriminatrice.

La norma incriminatrice, la cui portata applicativa è stata ampliata, anche con l’introduzione al secondo comma di una nuova fattispecie, dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, ha un suo precedente storico nell’art 97 d.P.R. n. 602 del 1973, che, nella versione introdotta dalla I. n. 413 del 1991, puniva, con la reclusione fino a tre anni, il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, aveva compiuto, dopo che erano iniziati accessi, ispezioni e verifiche o erano stati notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta, ovvero erano stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che avevano reso in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione esattoriale. La disposizione non si applicava se l’ammontare delle somme non corrisposte non era superiore a 10 milioni di lire.

 

 

(ii) Il delitto p. e p. dall’art. 11 d.lgs. 74/2000 come fattispecie di reato di pericolo concreto.

Nel confrontare la previsione attuale con quella precedente, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, Rv. 234322) ha osservato come nella vigente fattispecie di cui all’art. 11 d.lgs. 74 del 2000 sia scomparso ogni riferimento alla necessità dell’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale, essendo ora sufficiente che l’azione sia idonea a rendere inefficace l’esecuzione esattoriale, configurandosi dunque l’illecito penale in termini di reato di pericolo concreto (sul punto cfr. Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2006, Rv. 266771), integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio ex ante che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’Erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 46975 del 24/05/2018, dep. 16/10/2018, F., Rv. 274066).

 

(iii) La natura fraudolenta degli atti idonei a disperdere le garanzie del credito.

Al fine di colorare di illiceità penale la condotta, non è sufficiente che gli atti siano oggettivamente finalizzati a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, ma è necessario che gli stessi si caratterizzino altresì per la loro natura simulatoria o, ciò che rileva nel caso in esame, fraudolenta.

Con riguardo, in particolare, alla nozione di “atti fraudolenti”, deve evidenziarsi che devono ritenersi tali tutti quei comportamenti che, quand’anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione (Sez. 3, n. 29636 del 02/03/2018, dep. 02/07/2018, Auci, Rv. 273493; Sez. 3, n. 25677 del 16/05/2012, Rv. 252996).

Per “atto fraudolento” deve perciò intendersi qualsiasi atto, connotato da una componente di artificio, inganno o menzogna, che sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio – o comunque rendendo più difficoltosa – l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario.

La necessità di individuare questo quid pluris nella condotta dell’agente è stata sottolineata dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 12213 del 21/12/2017, Rv. 272171) che, nell’ambito di una più ampia riflessione sul concetto di atti simulati o fraudolenti che rilevano per l’integrazione del delitto di cui all’art. 388 cod. pen., norma il cui schema risulta richiamato dall’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, hanno affermato che sarebbe in contrasto con il principio di legalità una lettura della norma che facesse coincidere il requisito della natura fraudolenta degli atti con la loro mera idoneità alla riduzione delle garanzie del credito, per cui, in quest’ottica, può essere ritenuto penalmente rilevante solo un atto di disposizione del patrimonio che si caratterizzi per le modalità tipizzate dalla norma, non potendosi in definitiva far coincidere la natura simulata dell’alienazione o il carattere fraudolento degli atti con il fine di vulnerare le legittime aspettative dell’Erario.

 

(iv) L’applicazione dei superiori principi al caso di specie.

Invero, la Corte territoriale ha ravvisato lo stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione nelle modalità della cessione dell’azienda, avvenuta per un prezzo irrisorio in favore di una società, la [omissis] srl, che, per un verso, non solo non era operativa, ma era stata creata ad hoc al solo scopo di acquistare l’azienda, e, per altro verso, era apparentemente amministrata dalla suocera del [omissis]. La Corte territoriale, inoltre, ha confutato la prospettazione difensiva, secondo cui il trasferimento in esame avesse come unico obiettivo la prosecuzione dell’attività aziendale, non ulteriormente esercitabile dalla [omissis srl] perché i beni aziendali erano stati sottoposti a sequestro, logicamente osservando che, sino a quel momento, detta attività era regolarmente proseguita mediante la concessione in locazione dell’azienda: e ciò fino a quando l’azienda fu ceduta.

In altri termini, se l’intenzione del ricorrente fosse stata di proseguire l’attività, egli ben avrebbe potuto continuare ad utilizzare lo schema contrattuale della locazione, come era avvenuto sino a quel momento; evidentemente, invece, l’atto di cessione si prefiggeva una finalità diversa: sottrarre i beni della società alle pretese del fisco, il che integra il dolo specifico, in ciò corroborato dalle indicate modalità di cessione dell’azienda, avvenuta mediante la creazione di un artificioso schermo giuridico.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA