La Suprema Corte chiarisce il perimetro della utilizzabilità nel processo penale delle presunzioni legali previste dalle norme tributarie.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza numero 1290.2021, resa dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione che, pronunciatasi su un caso di dichiarazione infedele, si sofferma sul valore probatorio assunto dalle presunzioni tributarie nel processo penale.

In particolare, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, dopo aver preliminarmente chiarito che il reato tributario è integrato non solo dall’annotazione di ricavi in misura inferiore al reale, ma anche dalla sotto fatturazione e dalla mancata fatturazione, esprime il principio di diritto secondo cui il Giudice penale può legittimamente fare ricorso agli accertamenti effettuati dall’amministrazione finanziaria anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, i quali, tuttavia, rivestono valore di elementi indiziari, che per assurgere a dignità di prova devono trovare risconto in altri elementi probatori o in altre presunzioni tributarie gravi, precise e concordanti.

Per una migliore comprensione dell’argomento qui trattato, di seguito al commento della sentenza il lettore troverà:

(i) il testo della fattispecie incriminatrice;

(ii) gli arresti giurisprudenziali citati nella sentenza in commento;

(iii) la rassegna delle più recenti massime riferite alle pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di dichiarazione infedele, oltre agli approfondimenti sul reato tributario che il lettore può trovare nell’area del sito dedicata all’argomento.

Il reato contestato e la doppia conforme di merito

Nel caso di specie, all’imputato, tratto a giudizio nella qualità di legale rappresentante della società, era stato  contestato il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 D.lgs. 74/2000, per aver dato disposizioni ai dipendenti di effettuare vendite senza operare la relativa fatturazione, al fine di evadere le imposte, alterando la contabilità in modo da trarre in inganno l’amministratore giudiziario subentratogli nell’amministrazione dell’impresa.

La Corte di appello di Palermo confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Sciacca aveva condannato il prevenuto per il reato ascrittogli.

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto

La difesa del giudicabile proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, articolando due motivi di impugnazione.

In particolare, il ricorrente, lamentava che i Giudici del merito avessero fondato la sentenza di condanna su mere presunzioni legali, l’utilizzo delle quali, secondo la tesi difensiva, aveva comportato il superamento della soglia di punibilità ex art. 4 D.lgs. 74/2000.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla parte motiva della pronuncia in commento:

 

 

“Nessun dubbio, neppure sollevato dalla difesa, sulla configurabilità della fattispecie di reato di dichiarazione infedele che è integrato, dopo le modifiche al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdotte dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 158, dalle condotte di annotazione di componenti positivi del reddito in misura inferiore a quella reale (con superamento della soglia di evasione di imposta), di indebita riduzione dell’imponibile con l’indicazione di costi inesistenti (e non più fittizi), e di sottofatturazione; mentre non assume rilievo, nella valutazione sulla divergenza dei valori indicati, la mera violazione dei criteri di competenza e di inerenza di ricavi e di costi oggettivamente esistenti (Sez. 3, n. 30686 del 22/03/2017). […]

Nel rammentare che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015), e che, in materia di reati tributari, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo (Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017), la sentenza è pervenuta alla prova dell’imposta evasa attraverso un procedimento logico basato su dati di fatti obiettivi presenti in atti.

La sentenza impugnata ha dapprima applicato il metodo analitico-induttivo nella determinazione dei ricavi non fatturati per l’anno 2010, è, poi, pervenuta alla determinazione dell’imposta evasa attraverso un percorso logico argomentativo che, fondato su dati di fatto ricavati dagli elementi probatori, e dunque obiettivi, applicando il metodo analitico-deduttivo ha ritenuto congruo desumere la percentuale di ricarico sui beni venduti nel 2010, e non fatturati, dal ricarico medio ponderato delle vendite del triennio precedente, ed ha così calcolato il valore di ricarico medio ponderato su cui ha poi determinato l’imposta evasa.

Nel pervenire alla conferma della decisione di condanna, la corte territoriale si è attenuta al principio costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, in materia di reati tributari secondo cui il giudice penale ai fini della prova del reato, può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, pur dovendo il proprio esame estendersi a valutare ogni altro eventuale indizio acquisito in quanto l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che detti elementi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti (Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015), e con motivazione puntuale, aderente al dato probatorio e con motivazione esente da profili di illogicità manifesta ha ricostruito l’ammontare di ricavi, derivanti dalle vendite in nero, sottratti all’imposizione fiscale e correlatamente l’ammontare delle imposte evase superiore, per entrambe le imposte, alla soglia di punibilità”.

 

La fattispecie incriminatrice:

Art. 4 D.lgs. 74/2000 – Dichiarazione infedele

Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:

  1. a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila;
  2. b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro due milioni.

Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.

Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).

 

Le pronunce citate nella sentenza in commento:

Cassazione penale sez. III, 19/04/2017, n.28710

In materia di reati tributari, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto l’inconciliabilità con il dolo specifico richiesto per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8, D.Lgs. n. 74 del 2000, degli esiti dell’accertamento svolto dalla Guardia di Finanza che, in relazione ai medesimi fatti, aveva disposto l’archiviazione del procedimento amministrativo di accertamento, riconoscendo la buona fede della società emittente le fatture).

 

Cassazione penale sez. III, 22/03/2017, n.30686

In materia di reati tributari, il reato di dichiarazione infedele, di cui all’articolo 4 del decreto legislativo n. 74 del 2000, come delineato a seguito delle modifiche introdotte dall’articolo 4, comma 1, del decreto legislativo n. 158 del 2015, si pone in continuità normativa con la fattispecie previgente, ma è più favorevole all’imputato, avendo la nuova disciplina non solo innalzato le soglie di punibilità, ma anche circoscritto l’area dell’intervento penale, escludendovi gli aspetti valutativi (cfr. quanto previsto nei commi 1-bis e 1-ter dell’articolo 4, come introdotti dal citato decreto legislativo n. 158 del 2015) e le condotte non connotate da frode (cfr. la sostituzione della parola “fittizi” con l’attuale “inesistenti” nel comma 1 dell’articolo 4, sempre a opera del decreto legislativo n. 158 del 2015). In definitiva, la condotta ora punibile ex articolo 4, se caratterizzata dal superamento delle soglie di punibilità, si sostanzia: 1) nell’annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale (omessa annotazione di ricavi); 2) nell’indebita riduzione dell’imponibile tramite l’indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (e non più fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti a esistenza in rerum natura; e 3) nelle sottofatturazioni ovvero nell’indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale, in maniera da consentire all’emittente il conseguimento di ricavi non dichiarati (cfr., in proposito, il comma 3 dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000, che esclude espressamente la natura “fraudolenta” delle sottofatturazioni, che quindi rientrano nel raggio della condotta punibile dell’articolo 4).

 

Cassazione penale sez. III, 23/06/2015, n.30890

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. (In motivazione, la Corte ha precisato che il riscontro può essere fornito o da distinti elementi di prova, o anche da altre presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti).

 

La rassegna delle più recenti massime in tema di dichiarazione infedele

Cassazione penale sez. III, 14/09/2020, n.31195

Il reato di cui all’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele) può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della società in accomandita semplice, e, però, in tal caso, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.

 

Cassazione penale sez. III, 02/07/2020, n.26089

Sussiste la responsabilità penale del professionista, a titolo di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dal suo cliente, in caso di rilascio di un mendace visto di conformità, sia esso leggero o pesante, ovvero di un’infedele asseverazione dei dati ai fini degli studi di settore, in quanto l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

 

Cassazione penale sez. III, 14/02/2020, n.18575

Il reato di dichiarazione infedele dei redditi ai fini Irpef di cui all’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati a sequestro o confisca penale nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile. (In applicazione del principio, la Corte ha affermato che non rileva, ai predetti fini, il provvedimento ablatorio disposto contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, quale ulteriore conseguenza sanzionatoria ex art. 12-bis d.lg. n. 74 del 2000).

 

Cassazione penale sez. III, 12/11/2019, n.10916

In tema di reati tributari, il riferimento a talune ipotesi di fatturazione, contenuto nell’art. 3, comma 3, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, come riformato dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, non ha modificato il rapporto di specialità reciproca esistente tra il reato di cui all’art. 2 e quello di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo, in quanto, accanto ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, il primo presuppone l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi relativi ad operazioni inesistenti, mentre il secondo richiede una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie, nonché l’impiego di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento ed il raggiungimento della soglia di punibilità; ne consegue che il discrimine tra le due fattispecie è costituito dalle diverse modalità di documentazione dell’operazione economica, poiché alla particolare idoneità probatoria delle fatture corrisponde una maggiore capacità decettiva delle falsità commesse utilizzando tali documenti.

 

Cassazione penale sez. III, 22/10/2019, n.48029

In tema di patteggiamento, non è illegale la pena su accordo delle parti, comminata dal giudice anche senza l’integrale pagamento del debito. Difatti, per i reati di infedele e omessa presentazione della dichiarazione, al pari dei delitti di omesso versamento, si può accedere al patteggiamento anche senza l’estinzione del debito tributario. A sostenerlo è la Cassazione, che cambia opinione rispetto a quanto stabilito in precedenza in casi analoghi. Per i giudici di legittimità, infatti, non vi è distinzione tra le citate fattispecie e quindi per esse non può valere, ai fini del patteggiamento, la regola dell’integrale pagamento, in quanto se l’imputato corrispondesse il dovuto, entro l’apertura del dibattimento, non sarebbe più punibile e non avrebbe senso il patteggiamento.

 

Cassazione penale sez. III, 02/10/2019, n.47287

Per i reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. c.p.p., è ammissibile solo quando vi sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, deve affermarsi che la sentenza impugnata ha illegalmente determinato la pena, applicando la diminuente del rito in assenza dei presupposti necessari.

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.24152

In tema di reati tributari, il regime fiscale di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l’esonero dall’obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall’art. 2214 cod. civ., sicché, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può legittimamente tener conto della mancata tenuta della scritture contabili obbligatorie e della conseguente mancata tracciabilità delle movimentazioni finanziarie correlate alle operazioni economiche poste in essere.

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

La presentazione della dichiarazione integrativa non elide la responsabilità del contribuente per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74/2000. Le dichiarazioni prese in considerazione dalla norma sono solo la dichiarazione annuale in tema di imposta sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche che i soggetti sono obbligati a presentare ai sensi degli artt. 1-6 d.P.R. n. 600/1973, e la dichiarazione annuale relativa all’imposta sul valore aggiunto disciplinata dall’art. 8 d.P.R. n. 322/1998.

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

Ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 c.p., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile. (In applicazione del principio, la Corte ha considerato inapplicabile anche l’art. 47 c.p. nel caso di errore sulla efficacia sanante della dichiarazione integrativa rispetto a quanto riportato falsamente nella dichiarazione originaria annuale).

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

Il delitto di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, integra un reato istantaneo che si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione annuale, non rilevando l’eventuale presentazione di una successiva dichiarazione integrativa.

 

Cassazione penale sez. III, 27/03/2019, n.19228

Per la verifica della sussistenza del reato di dichiarazione infedele delle imposte sui redditi nei confronti di un amministratore di società di persone la quantificazione dell’imposta evasa va riferita all’intera somma non dichiarata dai soci e non soltanto dal sodo amministratore. Ad affermarlo è la Cassazione che scioglie il dubbio se il rappresentante legale risponda del reato di dichiarazione infedele quando la soglia di imposta evasa superi quella penalmente rilevante (150mila euro) calcolandola come somma dell’Irpef non dichiarata dai singoli soci ovvero soltanto considerando l’Irpef non dichiarata nella propria dichiarazione quale persona fisica/socio. Secondo i giudici per la dichiarazione infedele, presentata da chi amministri una società di persone, si impone una valutazione unitaria dell’imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità.

 

Cassazione penale sez. III, 13/03/2019, n.19672

Il professionista, reo del rilascio di un mendace visto di conformità, vuoi leggero (cfr. articolo 35 del decreto legislativo n. 241 del 1997), vuoi pesante (cosiddetta “certificazione tributaria”) (articolo 36 dello stesso decreto legislativo), ovvero di un’infedele asseverazione dei dati ai fini degli studi di settore, risulta esposto anche a sanzioni penali in ragione dell’espressa previsione di cui all’articolo 39 del decreto legislativo n. 241 del 1997 e del meccanismo del concorso di persone nel reato di cui all’articolo 110 del Cp, non trovando applicazione Il principio di specialità di cui all’articolo 15 del Cp, incorrendo peraltro questi nel reato di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000, dal momento che l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

 

Cassazione penale sez. III, 06/02/2019, n.17535

In tema di reati tributari, il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende anche le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione. (Fattispecie in tema di reato di omesso versamento dell’i.v.a. di cui all’art. 10-ter d.lg. 10 marzo 2000 n. 74).

 

Cassazione penale sez. III, 29/01/2019, n.11520

In tema di successione di leggi penali, la modificazione “in melius” della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso solo se attiene a norma integratrice di quella penale. (Fattispecie, in tema di dichiarazione infedele, in cui la Corte ha affermato che il parametro di calcolo dell’imposta Ires, modificato dall’art. 1, comma 61, l. 28 dicembre 2015, n. 208, non è norma integratrice della fattispecie penale, lasciando del tutto immutati gli elementi costitutivi e la soglia di punibilità del reato previsto dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74).

 

Cassazione penale sez. III, 23/11/2018, n.10800

La previsione normativa che subordina, per i reati fiscali, l’applicazione del patteggiamento al pagamento del debito tributario (art. 13-bis, comma 2, d.lg. n. 74/2000) non si applica ai reati di dichiarazione infedele, omessa presentazione e occultamento o distruzione di scritture contabili.

È, pertanto, legittimo accedere a tale istituto – per i menzionati reati – anche senza estinzione del debito con il Fisco.

 

Cassazione penale sez. III  10/05/2018 n. 26274  

 La ritenuta sussistenza del “fumus commissi delicti” ai fini dell’adozione di una misura cautelare reale in relazione al reato di dichiarazione infedele previsto dall’ art. 4 d.lg. 10 marzo 2000 n. 74 ben può fondarsi, ove trattisi di redditi derivanti dall’esercizio di professioni, sulla presunzione legale che costituiscano “ricavi”, ai sensi dell’ art. 32 d.P.R. n. 600/1973 , (pur dopo la modifica apportata dall’ art. 7 quater, comma 1, lett. a, d.l. n. 193/2016 , conv. con modif. in l. n. 225/2016 ), quelli risultanti da versamenti sui conti correnti del professionista che quest’ultimo non sia in grado di giustificare diversamente, nulla rilevando in contrario la parziale dichiarazione di incostituzionalità del citato art. 32, pronunciata con sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014 , avendo essa avuto ad oggetto l’equiparazione tra attività imprenditoriale ed attività professionale solo limitatamente ai prelevamenti dai conti correnti e non ai versamenti.

 

Cassazione penale sez. III  10/05/2018 n. 26274  

I professionisti, ai fini dell’esclusione dal computo per la determinazione del reddito di imposta, devono dimostrare, con riferimento alle sole operazioni di versamento in conto corrente, che le stesse non rientrano tra i compensi riferibili alla loro attività, potendo diversamente costituire proventi utili ai fini dell’eventuale integrazione della fattispecie di dichiarazione infedele.

 

Cassazione penale sez. III  26/10/2017 n. 9378  

A seguito della introduzione dell’art. 10 bis l. 212/2000 (cd. Statuto del contribuente), ad opera del d.lg. n. 128/2015, che al comma 13 stabilisce che le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto detta disposizione esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti. La portata dell’art. 4 d.lg. 74/2000, per effetto di tale innovazione, che ha sottratto all’area del penalmente rilevante le condotte costituenti mero abuso del diritto, è stata delimitata in negativo. Conseguentemente va revocata, ex art. 673 c.p.p. la sentenza di condanna in tutti quei casi in cui le operazioni che hanno comportato l’infedeltà della dichiarazione siano state effettivamente realizzate, seppur con finalità elusive.

 

Cassazione penale sez. III  19/10/2017 n. 4733  

In tema di reati tributari, la confisca può essere adottata anche a fronte dell’impegno assunto dal contribuente di pagamento all’erario, producendo, tuttavia, effetti solo ove si verifichi l’evento futuro e incerto costituito dal mancato pagamento del debito. Precisando ciò, la Cassazione ha accolto il ricorso contro l’applicazione della misura ablatoria su tutta la somma dovuta per dichiarazione infedele, malgrado la totale estinzione del debito fosse arrivata prima della sentenza di patteggiamento.

 

Cassazione penale sez. VII  13/07/2017 n. 44293  

Ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lg. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile. (In applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso la condanna dall’imputato imprenditore, ritenendo non scusabile l’invocata mancata conoscenza delle prescrizioni contenute nell’art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972 riguardanti le cessioni all’esportazione non imponibili).

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA