Non è tenuto al risarcimento del danno per il fatto di mobbing realizzato dal proprio dipendente il datore di lavoro che non sia a conoscenza delle condotte vessatorie perpetrate dai superiori gerarchici.
Si segnala ai lettori del blog l’ordinanza numero 16534.2021, resa dalla VI Sezione Civile della Corte di Cassazione, pronunciatasi su un caso responsabilità civile del datore di lavoro per il fatto di mobbing realizzato da un dipendente in danno di un altro lavoratore.
In particolare, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, enuncia il principio di diritto secondo cui il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere ex art. 2087 o 2049 c.c. per il fatto riconducibile al fenomeno del mobbing posto in essere da un superiore gerarchico nei confronti di altro lavoratore, solo laddove il datore di lavoro sia a conoscenza del comportamento persecutorio assunto dal dipendente e, nonostante ciò, sia rimasto inerte, omettendo di intervenire per far cessare la condotta illecita.
Per una migliore comprensione dell’argomento qui trattato, di seguito al commento della sentenza il lettore troverà:
(i) gli arresti giurisprudenziali citati nell’ordinanza 16534.2021;
(ii) la rassegna delle più recenti massime riferite alle pronunce di legittimità in materia di responsabilità civile per mobbing, oltre agli approfondimenti sul tema, che il lettore può trovare nell’area del sito dedicata all’argomento.
La domanda di risarcimento del danno e la doppia conforme di merito
Nel caso di specie l’attrice conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Catanzaro il proprio datore di lavoro, avverso il quale proponeva domanda di risarcimento del danno subito in quanto vittima di condotte di mobbing perpetrare nei suoi confronti da parte dei propri superiori gerarchici.
La Corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di risarcimento del danno proposta da parte attrice.
Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto
Parte attrice proponeva, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, articolando plurimi motivi di impugnazione.
La società datrice di lavoro resisteva in giudizio con controricorso.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla trama argomentativa della pronuncia in commento:
“Il primo e il secondo motivo sono infondati in base al principio in forza del quale la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. – non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (ex multis Cass. n. 18093 del 25/07/2013), laddove nella specie la Corte territoriale aveva escluso, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, che il datore di lavoro, identificabile con la direzione provinciale di Catanzaro, fosse stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente”.
La pronuncia citata nell’ordinanza in commento:
Cassazione civile sez. lav., 25/07/2013, n.18093
La circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 c.c. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza.
La rassegna delle più recenti massime in tema di tutela civilistica del mobbing:
Cassazione civile sez. VI, 11/06/2021, n.16534
La responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. – non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (esclusa nella specie la responsabilità del datore che non era stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente).
Cassazione civile sez. lav., 04/03/2021, n.6079
L’elemento qualificante del mobbing, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
Cassazione civile sez. lav., 20/01/2020, n.1109
Ai fini della configurabilità del “mobbing orizzontale”, addebitabile in astratto al datore di lavoro quale condotta omissiva in violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente prova liberatoria a suo carico ex art. 1218 c.c., è necessario che il datore medesimo abbia avuto conoscenza dell’attività persecutoria, quindi necessariamente dolosa, posta in essere dai propri dipendenti nel contesto dell’ordinaria attività di lavoro.
Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, n.24883
Il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative « stressogene » (c.d. straining), e a tal fine il giudice di merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di « mobbing », è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti, possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 27/02/2019, n.5749
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Cassazione civile sez. lav., 20/06/2018, n.16256
Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
Cassazione civile sez. lav., 29/03/2018, n.7844
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative ‘stressogene’ (cd. ‘straining’). A tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di ‘mobbing’, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 19/02/2018, n.3977
Lo stress forzato inflitto al lavoratore dal superiore gerarchico configura una forma attenuata di mobbing definita straining, che giustifica la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c
Cassazione civile sez. lav., 15/11/2017, n.27110
Il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem laedere, sia pure nel più ampio contesto di cui all’art. 2087 c.c.. la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Cassazione civile sez. lav., 16/10/2017, n.24358
L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. “mobbing” e che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. consiste nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (esclusa, nella specie, la sussistenza del mobbing, atteso che i comportamenti denunciati, non avevano il carattere di sistematicità, presentandosi al contrario del tutto diluiti in un ampio lasso temporale).
Cassazione civile sez. lav., 03/03/2016, n.4222
Il c.d. danno da mobbing appartiene alla categoria della responsabilità contrattuale. Infatti in base all’art. 2087 c.c. tra le obbligazioni contrattuali poste a carico del datore durante un rapporto di lavoro vi è anche quella di garantire l’integrità psicofisica del lavoratore.
La natura contrattuale e non oggettiva di tale responsabilità comporta che il datore di lavoro non risponde delle condotte persecutorie perpetrate dai colleghi della vittima o dai suoi superiori qualora riesca a dimostrare la non imputabilità del danno.
Cassazione civile sez. lav., 19/02/2016, n.3291
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno.
Cassazione civile sez. lav., 03/07/2015, n.13693
In tema di responsabilità del datore di lavoro per ‘mobbing’, il lavoratore non è tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro, ma è comunque soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate.
Cassazione civile sez. lav., 15/05/2015, n.10037
In tema di “mobbing” la circostanza che la condotta provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. (Nella specie, relativa a dipendente comunale, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la responsabilità solidale dell’ente territoriale in considerazione della durata e delle modalità della condotta mobbizzante, tali da far ritenere che di essa fosse a conoscenza anche l’organo politico).
Cassazione civile sez. lav., 23/01/2015, n.1258
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente.
Cassazione civile sez. lav., 25/07/2013, n.18093
In tema di mobbing deve essere riconosciuto al lavoratore, vittima di vessazioni da parte di un collega, il danno morale quantificato equitativamente. Il datore di lavoro, provata la sua conoscenza dell’intera condotta illecita tenuta dal dipendente, viene, dunque, ritenuto responsabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2087 e 2049 c.c., del danno non patrimoniale subito dal ricorrente. Tale conclusione deriva da un’attenta analisi e precisa applicazione anche di istituti prettamente laburistici, quali il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare e i limiti della responsabilità del datore ex art. 2087 c.c.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA