Risponde di esercizio abusivo della professione colui che, pur sprovvisto dell’abilitazione in dermatologia, esegua attività di rimozione di tatuaggi con l’ausilio della luce pulsata.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza numero 28174.2021, resa dalla IV Sezione penale della Corte di Cassazione che, pronunciatasi su un caso di esercizio abusivo della professione medica, si sofferma sull’attività di rimozione dei tatuaggi tramite la tecnica della luce pulsata eseguita da soggetto non abilitato qualificatosi alla persona offesa come sanitario.

In particolare, la Suprema Corte, con la pronuncia in commento, ha enunciato il principio di diritto secondo cui può rispondere del delitto contro la Pubblica amministrazione il soggetto che, in assenza dell’apposita abilitazione professionale, fornisca consigli e appresti rimedi volti ad eliminare gli inestetismi, attraverso l’utilizzo di procedure che, in virtù della loro invasività e rischiosità, sono riservate ad  un medico specialista.

Per una migliore comprensione dell’argomento qui trattato, di seguito al commento della sentenza il lettore troverà:

(i) il testo della fattispecie incriminatrice;

(ii) la rassegna delle più recenti massime riferite alle pronunce di legittimità in materia di esercizio abusivo della professione sanitaria, oltre agli approfondimenti sul reato contro la Pubblica amministrazione che il lettore può trovare nell’area del sito dedicata all’argomento.

 

I reati contestati e il doppio giudizio di merito

Nel caso di specie, all’imputato erano  stati contestati i delitti di lesioni personali colpose e di esercizio abusivo della professione medica, previsti e puniti, rispettivamente ex art. 590 e 348 c.p., poiché, presentandosi come medico specialista in dermatologia, pur in assenza del titolo abilitativo, eseguiva un trattamento di luce pulsata volto alla rimozione di un tatuaggio, così cagionando alla persona offesa un’ulcera all’avambraccio.

La Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza resa dal locale Tribunale in punto di trattamento sanzionatorio in ragione dell’intervenuta remissione della querela per il reati colposo di evento,  confermava la condanna del prevenuto per il reato di esercizio abusivo della professione.

 

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto

La difesa del giudicabile proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte distrettuale, articolando plurimi motivi di impugnazione impingenti sia la sussistenza del reato, sia il trattamento sanzionatorio.

La Suprema Corte ha annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello, rigettando nel resto il ricorso e dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità, visto l’art. 624 c.p.p.

Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla parte motiva della pronuncia in commento:

Posto che la condotta costitutiva dell’abusivo esercizio deve consistere nel compimento di uno o più atti riservati alla attività medica, e che tale professione si può estrinsecare oltre che nella capacità di individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi, anche nell’utilizzo di tecniche e macchinari particolarmente invasivi finalizzati all’eliminazione di inestetismi, commette il reato di esercizio abusivo della professione medica anche colui che esprima giudizi diagnostici, fornisca consigli ed appresti rimedi volti ad eliminare inestetismi, ogni qualvolta a tal fine sia necessario procedere mediante tecniche chirurgiche o con procedure altrimenti non consentite se non al medico in ragione della loro invasività o rischiosità.

Occorre peraltro sottolineare che, nel caso in esame, l’atto posto in essere dall’imputato si è sostanziato nel presentarsi come dermatologo e nell’aver consigliato ed utilizzato la c.d. luce pulsata che, come indicato dagli stessi giudici di merito, si concreta nell’uso di un apparecchio elettromeccanico inserito nell’elenco di cui all’Allegato alla legge 4 gennaio 1990, n.1 che, a norma del D.M. n.110/2011, contenente il Regolamento di attuazione dell’art. 10 della legge citata (Disciplina dell’attività di estetista), può essere impiegato nell’attività di estetista per fini diversi da quelli della rimozione di tatuaggi.

Ma la decisione risulta, ad avviso del Collegio, esente da vizi per aver evidenziato che, indipendentemente dal metodo utilizzato, che viene usualmente adottato nei centri estetici per l’epilazione, integra l’elemento materiale del reato l’aver assunto in qualità di dermatologo l’incarico di rimuovere un tatuaggio, compiendo un’attività tipicamente riservata ad esercenti la professione medica (Sez. U, n.11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Rv.25181901). Sebbene, dunque, il caso di caratterizzi per l’uso di una tecnica non riservata agli esercenti la professione medica, ed anzi espressamente consentita presso i centri estetici, l’elemento determinante correttamente indicato dai giudici di merito è l’avere l’imputato compiuto senza titolo atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, sono univocamente individuati come di competenza specifica di essa, e per aver fatto ciò con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.

 

La fattispecie incriminatrice:

Art. 348 c.p. –  Abusivo esercizio di una professione

Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata.

Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo.

 

La rassegna delle più recenti massime in tema di esercizio abusivo della professione sanitaria:

Cassazione penale sez. VI, 08/07/2020, n.21989

In tema di esercizio abusivo della professione medica, risponde a titolo di concorso nel reato il responsabile di uno studio medico che consenta o agevoli lo svolgimento dell’attività da parte di soggetto che egli sa non essere munito di abilitazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che il professionista abilitato non versa in posizione di garanzia rispetto al reato commesso dal soggetto non abilitato, sicché la responsabilità a titolo di concorso si fonda sulla consapevolezza dell’assenza del titolo ed il connesso assenso, anche tacito, all’esecuzione di atti professionali).

 

Cassazione penale sez. VI, 12/02/2020, n.12539

Non integra il reato di esercizio abusivo della professione di cui all’art. 348 c.p., non essendo richiesto il conseguimento di una specifica abilitazione professionale ovvero l’iscrizione in appositi albi od elenchi, lo svolgimento dell’attività di massaggiatore a scopo non terapeutico, finalizzata esclusivamente al benessere personale o al miglioramento estetico, come i trattamenti antietà, anticellulite o antistress.(Fattispecie relativa alla offerta di massaggi in spiaggia ai bagnanti).

 

Cassazione penale sez. VI, 10/07/2019, n.13556

La ‘psicoanalisi’ va intesa come ‘psicoterapia’, caratterizzata da un percorso, che è anche terapeutico e volto a procurare la guarigione da talune patologie, e deve essere inquadrata nella professione medica o di psicologo, con conseguente configurabilità del reato ex art. 348 c.p. in carenza delle condizioni legittimanti tale professione.

 

Cassazione penale sez. VI, 07/06/2018, n.37767

In tema di esercizio abusivo della professione, le figure professionali dell’infermiere e dell’ostetrica sono fra loro profondamente differenti quanto a rispettivo ambito di operatività e a titolo abilitativo, trovando la rispettiva disciplina nei decreti del ministro della Sanità n. 739 e 740 del 14 settembre 1994: l’infermiere è, infatti, l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile dell’assistenza generale infermieristica, deputata principalmente alla prevenzione delle malattie, all’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e alla educazione sanitaria; mentre l’ostetrica è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, assiste e consiglia la donna nel periodo della gravidanza durante il parto e nel puerperio, conduce e porta a termine parti eutocici con propria responsabilità e presta assistenza al neonato.

 

Cassazione penale sez. VI, 08/03/2018, n.29667

Integra “il fumus comissi delicti”, relativamente al reato di esercizio abusivo della professione medica, la condotta del fisioterapista che, in assenza di prescrizione, ponga in essere trattamenti sanitari, atteso che la laurea in fisioterapia non abilita ad alcuna attività di diagnosi consentendo al fisioterapista il solo svolgimento, anche in autonomia, di attività esecutiva della prescrizione medica.

 

Cassazione penale sez. VI, 09/11/2017, n.2691

In tema di esercizio abusivo della professione, di cui all’art. 348 c.p., lo svolgimento dell’attività di odontoiatra, disciplinata dalla l. 24 luglio 1985, n. 409, in via ordinaria, è consentito solo a colui che, dopo il conseguimento della laurea in odontoiatria e protesi dentaria, abbia superato l’esame di Stato e sia iscritto al relativo albo, nonché, limitatamente al regime transitorio previsto dall’art. 20 della medesima legge, ai laureati in medicina e chirurgia, iscritti all’albo degli odontoiatri, qualora sussista una delle seguenti condizioni: a) immatricolazione al relativo corso di laurea prima del 28 gennaio 1980; b) immatricolazione negli anni compresi tra il 1980-81 ed il 1984-85 con superamento delle prove attitudinali previste per l’iscrizione all’Albo degli odontoiatri di cui al d.lg. 13 ottobre 1998, n. 386; c) conseguimento della specializzazione in campo odontoiatrico da parte di un soggetto immatricolato negli anni compresi tra il 1980-81 ed il 1984-85, esonerato dalle prove attitudinali. 

 

Cassazione penale sez. III, 24/05/2016, n.5235

Bene è ritenuta la configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p. (abusivo esercizio di una professione) nella condotta costituita dalla somministrazione ad un cavallo, senza prescrizione del medico veterinario, da parte di soggetto privo di abilitazione professionale, di un farmaco antidolorifico, nulla rilevando in contrario che trattisi di farmaco c.d. “da banco”, acquistabile in farmacia senza necessità di ricetta medica.

 

Cassazione penale sez. VI, 26/02/2015, n.20312

Il direttore di uno studio medico, che non accerti che un soggetto operante nella struttura da lui diretta sia in possesso del titolo abilitante, risponde di concorso nel reato previsto dall’art. 348, c.p., con la persona non titolata (oltre che di cooperazione, ex art. 113, c.p., negli eventuali fatti colposi da quest’ultima persona commessi, se derivanti dalla mancanza di professionalità del collaboratore e prevedibili secondo l’”id quod plerumque accidit”).

 

Cassazione penale sez. V, 10/02/2015, n.19554

È responsabile del reato di cui agli art. 348, 582 e 495, c.p. chi esercita abusivamente la professione di medico chirurgo in mancanza della relativa abilitazione professionale, a nulla rilevando il successo di interventi medici realizzati.

 

Cassazione penale sez. VI, 11/12/2014, n.916

È legittima la condanna per concorso in esercizio abusivo della professione ai sensi dell’art. 348 c.p. comminata nei confronti del medico titolare di uno studio odontoiatrico all’interno del quale sia stata sorpresa l’assistente dello stesso, priva di titoli abilitativi, nell’atto di porre in essere nella bocca dei pazienti atti di natura odontoiatrica (nello specifico l’assistente indossava camice e mascherina e si accingeva ad effettuare la pulizia dei denti di un paziente.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA