Annullata dalla Cassazione la sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta se non vi è prova della illecita destinazione impressa alla liquidità della società da parte dell’amministratore.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza numero 29884.2021, resa dalla V Sezione penale della Corte di Cassazione che, pronunciatasi su un caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale, si sofferma sul tema della prova della effettiva distrazione dal patrimonio sociale di somme ad opera dell’organo gestorio che sola può legittimare l’affermazione della penale responsabilità in sede penale.

 

Il reato contestato ed i gradi di merito

Nel caso di specie, la Corte di appello di Bologna, accogliendo il ricorso del PM,  aveva riformato la sentenza assolutoria di primo grado, condannando l’imputato  per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

Nella sentenza sottoposta allo scrutinio di legittimità la Corte territoriale – senza rinnovare l’istruttoria dibattimentale – aveva operato una diversa lettura delle prove dichiarative assunte nel dibattimento di primo grado così giungendo al convincimento dell’impiego di somme di denaro per scopi estranei a quelli propri dell’impresa collettiva, diversamente dal primo giudice che le aveva considerate come impiegate per risolvere lo stato di crisi in cui versava la società (completamento immobili da locare per ottenere una liquidità).

 

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e i principi di diritto

La difesa del prevenuto proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado, deducendo la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla configurazione del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione denunciando il travisamento della prova e la mancata rinnovazione dell’istruttoria in grado di appello (art. 603 cod. proc. pen.) quale presupposto della motivazione rafforzata.

La Suprema Corte, in accoglimento dell’impugnazione di legittimità, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla parte motiva della pronuncia in commento:

(i) Gli indici di fraudolenza nella bancarotta per distrazione.

“….Il punto focale della fattispecie contestata all’imputato è rappresentato dalla natura distrattiva o meno delle operazioni effettuate dal [omissis], prelevando somme di denaro dalla “cassa” ovvero dal conto corrente bancario della società fallita, per un importo complessivo di 145.129,48 euro, come descritto nel capo A) dell’imputazione.

Il giudice di primo grado, nel pronunciare sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, si è richiamato a un principio affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (cfr. Cass., Sez. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Rv. 270763)

Ad avviso del giudice di primo grado tali “indici di fraudolenza” non sono configurabili nel caso in esame, in quanto, dalle risultanze processuali, era emerso che tutte le attività poste in essere dall’imputato, imprenditore edile a capo di un gruppo avente ad oggetto la costruzione e la vendita di unità immobiliari, “erano state finalizzate alla vitalità dell’azienda, alla sua ripresa in un momento di crisi generale e alla ragionevolezza imprenditoriale suffragata da strumenti leciti, quali il concordato preventivo, la realizzazione di contratti di affitto, che effettivamente avevano prodotto utili per il 2011” (con i quali, evidenzia il tribunale, “aveva addirittura saldato una parte dei debiti”) “e la partecipazione al salvataggio della società, mediante l’impiego di propri capitali e dei capitali dei propri familiari”.

Significativa, nella prospettiva seguita dal tribunale, è la circostanza che il [omissis], allo scopo di salvare la società, non solo era riuscito a concludere con gli istituti bancari che vantavano posizioni creditorie nei suoi confronti un concordato preventivo, ma, soprattutto, “aveva diversificato la finalizzazione degli immobili: gli appartamenti in via di costruzione erano quindi stati bloccati, preferendo dar corso all’ultimazione di quelle unità immobiliari che avrebbero potuto essere poste in locazione”, ottenendo dai relativi canoni di affitto il ricavo finanziario necessario a coprire le spese vive e parte dei debiti.

In questa prospettiva, il tribunale ha ricondotto le movimentazioni di denaro imputabili al [omissis] alla finalità, affatto distrattiva, di “garantire gli adempimenti verso creditori”, senza tacere, per altro verso, che “a fronte di un patrimonio immobiliare attivo di circa 5 milioni di euro”, la curatrice del fallimento “non ha saputo specificare se le fatturazioni di cui al capo A) fossero destinate a prestazioni, consulenze o attività necessarie a far proseguire utilmente la società poi dichiarata fallita, limitandosi ad asserire di aver indicato l’esistenza di tali uscite senza altro considerare o poter considerare”.

Centrale, dunque, nella fattispecie in esame, è il tema della destinazione delle somme indicate nel capo A) dell’imputazione, in quanto, come è noto, integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106).

Ed invero, il patrimonio di una società commerciale non è necessariamente intangibile, potendo configurarsi una sua diversa destinazione, qualificabile in termini di distrazione, solo se le sue componenti siano impiegate per finalità estranee all’oggetto sociale ovvero senza remunerazione, non quando venga utilizzato per attività rientranti negli scopi dell’impresa, con accollo del relativo rischio economico, insito nella natura stessa dell’attività imprenditoriale.

Distrazione, in relazione alla quale va parametrato l’elemento soggettivo del reato, costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr. Cass. Sez. U., n. 22474 del 31/03/2016, Rv. 266805).

Orbene, entrambi i profili non vengono affrontati adeguatamente dalla corte territoriale, che, con motivazione assolutamente assertiva, si limita ad affermare, da un lato, che non risulta dimostrata la destinazione delle movimentazioni di denaro in precedenza indicate al fine di garantire gli adempimenti verso i creditori, dall’altro che tali movimentazioni, essendo prive di corrispondenza sinallagmatica, non potevano che essere ricondotte ad una finalità distrattiva, senza indicare, tuttavia, le ragioni per cui gli esborsi in questione debbano considerarsi estranei alle finalità dell’impresa.

Omissione particolarmente significativa ove si tenga presente, che, come dimostrato dal ricorrente, dai partitari che la curatrice ha affermato di avere esaminato, allegati al ricorso, si evince che gli esborsi di denaro di cui essi danno contezza sono stati indicati con la dicitura “pagamenti fornitori”, che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbero proprio i fornitori che hanno prestato la loro opera e i loro servizi per consentire il completamento degli appartamenti dai quali il [omissis] si riprometteva di conseguire una fonte di sostegno finanziario per la società, come evidenziato dal tribunale di Rimini.  

La corte territoriale, in conclusione, è giunta a un ribaltamento della pronuncia assolutoria, senza procedere, come avrebbe dovuto, alla rinnovazione delle prove dichiarative su cui il giudice di primo grado ha fondato la sua decisione (deposizioni dei testi Masini; Cedrini e Monaldi).

Sotto altro profilo il giudice di appello ha fondato, altresì, la pronuncia di condanna dell’imputato su di una motivazione incompleta, che, da un lato, non si è confrontata adeguatamente con il percorso argomentativo del giudice di primo grado; dall’altro, ha omesso di prendere in considerazione un importante elemento probatorio acquisito al processo (i partitari, di cui si è detto), potenzialmente in grado di suffragare l’assunto del tribunale di Rimini, omissione che integra il vizio di travisamento della prova per omissione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. (cfr. Cass., Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, Rv. 278457).

 

(ii) La necessità di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per giungere alla motivazione rafforzata.

“Al riguardo giova premettere una, sia pure sintetica, ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, formatasi sulla questione di diritto posta dal ricorrente, partendo dai principi affermati nella nota sentenza “Dasgupta” delle Sezioni Unite di questa Corte di Cassazione.

In tale fondamentale arresto il Supremo Collegio rilevava, che, in pieno accordo con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU, fermi restando i limiti derivanti dal dovere di immediata declaratoria di cause di non procedibilità o di estinzione del reato, ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen., il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.

Si tratta di una conclusione perfettamente in linea, sottolineava il Supremo Consesso, con la proposta di introduzione di una esplicitazione di un simile dovere del giudice di appello, nell’ambito di un apposito comma (4-bis) da inserire nell’art. 603 cod. proc. pen., formulata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del 10 giugno 2013 per la elaborazione di interventi in tema di processo penale. Proposta effettivamente recepita dal Legislatore, che, con l’art. 1, co. 58, I. 23 giugno 2017, n. 103, ha inserito nel disposto dell’art. 603, c.p.p., il comma 3 bis, in cui si statuisce, con effetto a decorrere dal 3 agosto 2017, che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla prova dichiarativa, il giudice dispone” (vale a dire, è tenuto a disporre) “la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.

Nel corpo della medesima motivazione venivano affermati anche ulteriori principi, che appare opportuno ribadire.

In particolare, si è precisato, da un lato, che costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna.

Dall’altro, che la necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante.

In considerazione del valore centrale attribuito alla esigenza di procedere alla rinnovazione istruttoria, le Sezioni Unite evidenziavano, infine, come anche il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (cfr. Cass., Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, rv. 267488, nonché, nello stesso senso, in tema di giudizio abbreviato, Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, rv. 269787, Patalano).

Si è, quindi, evidenziato come, nell’ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione, il contraddittorio deve essere implementato con il principio dell’oralità anche in appello, perché questo è il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l’intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, giungano ad opposte conclusioni, non apparendo influente, sotto detto aspetto, la circostanza che l’impugnazione sia proposta dal pubblico ministero piuttosto che dalla parte civile, posto che il nostro sistema processuale non prevede differenziazioni delle regole probatorie ai fini dell’accertamento della responsabilità penale e civile nel contesto unitario del processo penale, non potendosi, sotto il profilo del diritto di difesa, diversamente declinarsi le regole poste a presidio dello stesso, a seconda se vengano in rilievo profili penali o esclusivamente civili, non essendo ciò in alcun modo desumibile dai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come sviluppati dall’interpretazione della Corte comunitaria e recepita nella Carta Costituzionale all’art. 111, nonché dalla prospettiva posta a fondamento dell’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte” (cfr. Cass., Sez. U. n. 14426 del 28/1/2019, Rv. 275112, Pavan, in motivazione). A ciò si aggiunga, sotto diverso, ma concorrente profilo, che, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, in tema di giudizio di appello, la motivazione rafforzata, richiesta nel caso di riforma della sentenza assolutoria o di condanna di primo grado, consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, Rv. 278056; Cass., Sez. 3, n. 50351 del 29/10/2019, Rv. 277616).

Tanto premesso, non può non rilevarsi come la corte territoriale, nel ribaltare la decisione assolutoria del giudice di primo grado, non abbia fatto buon governo di tali principi.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA