Non sussiste il reato di omesso versamento IVA se il contribuente non indica nella dichiarazione annuale una imposta indiretta superiore alla soglia di punibilità ancorché la stessa risulti accertata dall’Agenzia delle Entrate.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza n. 31367/2021, depositata il 10.08.2021, con la quale la Suprema Corte, scrutinando in sede cautelare reale una imputazione provvisoria di omesso versamento Iva, ha ritenuto di dare continuità al  dominante orientamento di legittimità secondo il quale, per poter configurare il delitto tributario previsto e punito dall’art. 10 ter d.lg.vo 74/2000, è necessario che nella dichiarazione annuale venga esposto un importo Iva a debito superiore alla soglia di punibilità, attualmente fissata in euro 250.000.

Dalla lettura della sentenza in commento si ricava che il Tribunale cautelare di Pordenone, accogliendo l’appello proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza con cui il g.i.p. in sede non aveva accolto la richiesta di sequestro preventivo, applicava  la misura cautelare reale finalizzata alla confisca del profitto, diretta e per equivalente, in relazione al reato di cui al reato di omesso versamento dell’imposta indiretta per l’anno 2018.

E’ importante segnalare che secondo quanto è possibile ricavare dal provvedimento in disamina la decisione del Tribunale per il riesame –  di segno opposto rispetto  a quanto ritenuto dal primo Giudice – era stata fondata sulla comunicazione di reato proveniente  dall’Agenzia delle Entrate che aveva evidenziato come non effettuati i versamenti di acconti periodici da parte della società riportati nel dichiarativo fiscale.

Contro la sentenza resa dal Collegio cautelare interponeva ricorso per cassazione la difesa del giudicabile sia nell’interesse dell’indagato, sia della persona giuridica attinta dal sequestro preventivo, articolando plurimi motivi di impugnazione, denunciando, tra l’altro, e per quanto qui di interesse,  vizio di legge evidenziando che al rigo VL38 della dichiarazione, l’iva da versare  era pari a soli € 2.504,00, quindi ben inferiore alla soglia di punibilità.

La Suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata ordinando, per l’effetto, il dissequestro dei beni colpiti dal sequestro preventivo.

Di seguito si riportano  i  passaggi estratti dal compendio motivazionale della sentenza in  commento afferenti il tema del fatto materiale del reato di omesso versamento dell’iva.

“Ad avviso del Collegio, questa conclusione è errata, essendo invece ictu oculi evidente – come il ricorrente afferma – che il suddetto VL3 è un mero “rigo intermedio” della dichiarazione, attestante l’IVA a debito maturata nell’anno d’imposta, e non già quella che rileva ai fini dell’applicazione della norma incriminatrice, che, invece, è «l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale» (corsivo nostro), vale a dire quella risultante tenendo conto, tra l’altro, dei versamenti periodici effettuati in base a quanto riferito nella stessa dichiarazione.

Non può invece ritenersi – come attesta l’ordinanza – che tali importi rilevino, laddove corretti e rispondenti a dati veritieri, soltanto per verificare se sia stata superata la soglia di punibilità di €250.000.

Pena l’illegittimo ampliamento del campo di applicazione della norma penale ad ipotesi nella stessa non considerate, al di là di un eventuale errore di calcolo che sia evidente dalla mera lettura della dichiarazione annuale e che consenta di immediatamente comprendere che l’importo in essa indicato come dovuto sia superiore alla soglia di punibilità, ciò che rileva ai fini dell’integrazione del reato è proprio – e soltanto – l’importo “dichiarato dovuto”.

Laddove la dichiarazione contenga invece – come nella specie ritenuto dalla stessa ordinanza impugnata – indicazioni obiettivamente false, può sussistere, ricorrendone gli estremi, il delitto dichiarativo di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000, che, tra l’altro, ricorrendo il richiesto dolo specifico di evasione, punisce l’indicazione nelle dichiarazioni annuali di «elementi passivi inesistenti».

Ed invero, per quanto qui rileva, l’art. 1, lett. b, d.lgs. 74/2004 prevede che per «elementi “attivi o passivi” si intendono le componenti, espresse in cifra, che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta».

L’inesistente elemento passivo nella specie indicato per determinare l’IVA dovuta nella dichiarazione annuale 2019 – vale a dire, al rigo VL30, versamenti periodici in realtà non effettuati – è idoneo ad integrare gli estremi di una falsa dichiarazione.

La ratio della meno grave ipotesi delittuosa prevista dall’art. 10 ter d.lgs. 74/2000 sta nel punire il contribuente che, pur essendosi riconosciuto debitore nei confronti dell’Erario, non versa quanto dal medesimo ritenuto dovuto: la sussistenza del reato in relazione al superamento della soglia di rilevanza penale deve risultare ictu oculi evidente dalla dichiarazione presentata e non può postulare l’esito di un accertamento d’indagine aliunde espletato.

Laddove quest’ultimo dimostri che la dichiarazione presentata è falsa, sussistendone gli estremi ricorreranno le ipotesi di reato dichiarative previste dagli artt. 2, 3 o 4 d.lgs. 74/2000, le quali potranno anche concorrere con il reato di omesso versamento, ma soltanto laddove questo sia, nella sua materialità, sussistente, vale a dire quando la dichiarazione di per sé indichi (quantomeno) un’imposta dovuta superiore alla soglia di non punibilità che non sia poi di fatto versata.

La conclusione qui raggiunta, del resto, è in linea con la più recente giurisprudenza di questa Corte, correttamente evocata in ricorso.

Si è infatti affermato che ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili (Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017, dep. 2018, Strada, Rv. 272552) e l’imposta dovuta, di regola, è proprio quella indicata nel rigo VL38 di tale dichiarazione, potendo, tuttavia, il giudice prescindere da tale importo, se esso non è giustificato dall’esame formale della dichiarazione stessa (Sez. 3, n. 2563 del 18/05/2018, dep. 2019, Frucella, Rv. 275686).

Come più sopra si è rilevato, dunque, soltanto incongruenze eventualmente rilevabili in base alla mera analisi della dichiarazione possono consentire di eventualmente “rettificare” l’importo dal contribuente riconosciuto come dovuto, mentre – come le sentenze citate hanno espressamente affermato – laddove la diversa quantificazione dell’imposta sia effettuata in forza di accertamenti sostanziali sulla non corrispondenza al vero delle voci attive e passive in essa indicate saranno eventualmente ravvisabili i più gravi reati di cui agli artt. 2, 3, e 4 del d.lgs. n. 74 del 2000.

A questo orientamento sembra ascriversi anche la precedente decisione (Sez. 3, n. 9049, 05/12/2012, dep. 2013, Mamone, n.m.) in cui si è ritenuto irrilevante che il contribuente non avesse compilato l’ultimo rigo della dichiarazione (dedicato all’appostazione dell’importo a debito risultante), atteso che l’analisi della dichiarazione consentiva, in base ai dati in essa indicati, di liquidare agevolmente l’imposta dovuta come superiore alla soglia penalmente rileva.

E’ invece andata in contrario avviso Sez. 3, n. 31179 del 29/05/2014, Connes, n.m., la quale – pur dichiarando di aderire all’orientamento espresso dalla citata sentenza Mamone – ha ritenuto sussistente il reato di omesso versamento in un caso, analogo a quello qui giudicato, in cui il debito fiscale attestato in dichiarazione, inferiore alla soglia di punibilità, dipendeva dal dichiarato (ma insussistente) versamento di somme periodiche.

Per le ragioni esposte, a questo più risalente orientamento non deve tuttavia darsi seguito.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA