Concorre nell’omicidio colposo l’omeopata che avalla l’operato antiscientifico del medico curante la paziente affetta da melanoma.
Si segnala ai lettori del sito la recente sentenza numero 5117.2022, resa dalla IV Sezione penale della Corte di Cassazione che, pronunciatasi su un caso di omicidio colposo in ambito medico, si sofferma sul tema della responsabilità del sanitario che in dispregio della scienza medica e senza applicare i protocolli universalmente conosciuti ed utilizzati per la cura di patologie tumorali, si interpone nella relazione terapeutica consigliando – seppure indirettamente – alla paziente, di sottoporsi a cure alternative rispetto a quelle ufficiali condivise dalla comunità scientifica, così creando le condizioni per l’evoluzione infausta della grave malattia sino al verificarsi della morte della paziente.
Ad avviso di chi scrive, la sentenza in commento, appare di particolare interesse per gli operatori del diritto che si occupano della materia del diritto penale dei sanitari per il passaggio della motivazione sulla cooperazione colposa e quindi sulla responsabilità penale del medico chiamato a consulto al quale era stata contestata la cooperazione colposa che nel processo si era difeso sostenendo, tra l’altro, sostenendo la tesi della mancata assunzione della posizione di garanzia-
Il caso clinico, il reato contestato e la doppia conforme di merito.
La Procura della Repubblica di Torino chiedeva il rinvio a giudizio dell’imputata per il reato di omicidio colposo aggravato (artt. 113, 589, 61 n. 3, cod. pen.), perché, quale mentore e collega di studio della dr.ssa [omissis] – giudicata separatamente -, in cooperazione con quest’ultima che aveva in cura la paziente [omissis], per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché in violazione delle elementari regole di comportamento riconosciute dalla comunità scientifica, consigliava alla paziente, cui era stato diagnosticato il 10 dicembre 2005 “un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra”, di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica Hahnemanniana priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando gli stessi suggerimenti negli anni successivi, anche dopo l’asportazione del suddetto nevo (avvenuta il 21 marzo 2014) e la formulazione della diagnosi di “melanoma maligno a cellule epitelimorfe“, in questo modo facendo sì che alla [omissis] non venissero praticati interventi e terapie necessarie (tra cui exeresi o asportazione chirurgica del nevo ed asportazione dei linfonodi), non impedendone il decesso, avvenuto il 24 settembre 2014 a seguito delle molteplici metastasi sviluppatesi dal melanoma. Con l’aggravante di aver commesso il fatto nonostante la previsione dell’evento.
La Corte di appello di Torino confermava la sentenza di condanna resa dal locale Tribunale.
Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto.
Contro la sentenza della Corte territoriale la difesa del giudicabile proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione resa dalla Corte territoriale, articolando plurimi motivi di impugnazione.
In particolare, per quanto qui interesse, veniva denunciato vizio di legge e di motivazione in ordine alla ritenuta (si è assunto erronea) ricorrenza delle condizioni necessarie a ritenere integrata la posizione di garanzia assunta dall’imputata rispetto ai beni della vita e salute della paziente
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dalla parte motiva della pronuncia in commento:
“In primo luogo privo di fondamento è il motivo introduttivo, con cui la ricorrente ha lamentato l’insussistenza di ogni sua cooperazione colposa nella realizzazione del reato, per non avere avuto nessuna relazione terapeutica con la [omissis], di cui unico medico curante era la [omissis], e quindi latitando in costei la consapevolezza psicologica di cooperare, necessaria per la consumazione del reato colposo.
Diversamente da quanto dedotto dalla [omissis], invece, la Corte di appello ha diffusamente ricostruito le plurime emergenze probatorie da cui evincere la sussistenza di un’effettiva cooperazione colposa svolta dalla ricorrente nella verificazione dell’evento mortale.
Come ampiamente rappresentato dal giudice di seconde cure, infatti, non è di nessun rilievo la circostanza che la ricorrente non avesse avuto nessun rapporto terapeutico con la [omissis], né che non avesse ricoperto alcuna specifica posizione di garanzia, pertenendo la stessa alla collega[omissis].
Non vi è, infatti, nessuna illogicità, né violazione di alcun precetto giuridico, nel ragionamento con cui la Corte di appello, con motivazione del tutto e logica e congrua, ha esplicato le argomentazioni per cui rispetto all'[omissis], pur non potendosi configurare la violazione di una regola cautelare causalmente orientata a determinare l’evento, non trattandosi del medico curante della persona offesa, possa comunque essere ascritta una cooperazione colposa nella verificazione del tragico evento, in ragione dell’ascendente avuto sia nei confronti della paziente che del medico curante, nonché delle condotte a lei direttamente imputabili, le quali certamente – almeno a far data dal 2012 – hanno contribuito a definire il percorso terapeutico, avallando le nefaste scelte della [omissis] pur nella consapevolezza della loro contrarietà alla medicina tradizionale e dei pericolosi rischi connessi alla grave situazione di salute in cui versava la [omissis].
Per come, infatti, correttamente argomentato dalla Corte territoriale, con condivisibile e logica motivazione, «la condotta dell'[omissis] che fu chiamata nel maggio 2012 a valutare la situazione di rischio in cui la [omissis] si trovava, percependone immediatamente la gravità, visto che definì la formazione cutanea un “cancero”, fu di piena adesione al fallimentare piano terapeutico elaborato dalla [omissis], al consiglio di rimandare l’intervento fino a che il tumore non fosse uscito naturalmente dal corpo della paziente, adesione che è connotata da una manifesta attitudine agevolatríce della dissennata condotta dell’allieva [omissis]».
Parimenti corretta, quindi, è la successiva considerazione per cui è «circostanza pacifica che la titolare della posizione di garanzia nei confronti della La/lo era la [omissis]; cionondimeno, è un dato altrettanto incontroverso che l'[omissis] non si sia attivata, una volta coinvolta dal primo consulto, definito dalla [omissis] come la faticosa seduta, venendo così meno all’obbligo connaturato con la professione medica di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente, tenendo una condotta professionale caratterizzata da grave imprudenza ed imperizia».
Trattasi di argomentazione del tutto logica e congrua, priva dei dedotti vizi e conforme ai più corretti canoni ermeneutici, per cui il Collegio non può che inferirne il necessario rigetto dell’eccepita doglianza.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA