Quando si possono considerare reato le frasi offensive inserire nella chat del gruppo wathsapp?

Segnalo la recente sentenza numero 28675.2022, con la quale la sezione quinta penale della Corte di Cassazione, si è pronunciata sulla questione giuridica delle conseguenze penali in cui può incorrere l’utente di wathsapp che inserisce all’interno di una chat di gruppo delle fasi offensive, lesive della reputazione di uno dei partecipanti al gruppo medesimo.

Nel caso di specie, la Corte di legittimità, ha condiviso l’iter logico- giuridico seguito dai giudici di appello che avevano ritenuto configurabile il reato di diffamazione in quanto, secondo le prove documentali acquisite nel corso del dibattimento, la persona offesa dal reato non sarebbe stata presente nel momento in cui le espressioni offensive erano state inserite nella conversazione intercorsa tra più persone avendone avuto conoscenza solo successivamente.

Diversamente, come registrato in altre pronunce della Suprema Corte, qualora nel corso del processo  fosse stata raggiunta la prova della contestuale presenza della parte offesa al momento della pubblicazione dei messaggi, ciò avrebbe deposto per la diversa ipotesi della ingiuria – depenalizzata con il decreto legislativo n. 7 del 15 gennaio 2016 – con esito assolutorio in sede penale e la residua possibilità per la vittima di agire in sede civile ex art. 2043 e segg. cod. civ. per il risarcimento dei danni.

 

Il caso in esame, l’imputazione ed il doppio grado di merito.

Secondo quanto è dato evincere dalla sentenza in commento l’imputazione di diffamazione era stata elevata nei confronti dell’imputata per avere inviato plurimi messaggi scritti ed audio in una chat di whatsapp  la  persona  offesa  ed  altre  giovani  ragazze,  dal contenuto  pesantemente offensivo nei confronti della prima.

Il Tribunale di Ascoli Piceno assolveva l’imputata dal delitto previsto e punito dall’art. 595 cod. pen. con la formula perché il fatto non sussiste; la decisione del primo giudice veniva riformata dalla Corte territoriale di Ancona, che, accogliendo l’appello del PM e della parte civile, condannava l’imputata alla pena ritenuta di giustizia per il reato a lei ascritto, oltre al risarcimento dei danni.

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità ed il principio di diritto.

Contro la sentenza resa dalla Corte distrettuale interponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputata, deducendo vizio di legge e di motivazione.

Secondo la tesi difensiva il fatto addebitato doveva essere derubricato in ingiuria in ragione della presenza della parte offesa nel momento in cui avveniva l’invio dei messaggi con conseguente richiesta di assoluzione dell’imputata.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Di seguito si riportano i passaggi estratti dalla trama argomentativa della sentenza annotata di maggiore interesse per il presente commento:

“…Orbene, sulla scia dell’enucleazione del concetto di presenza virtuale di cui alla sentenza Viviano, il Collegio osserva — reputandolo dato di comune esperienza, data la massiccia diffusione del sistema di messaggistica istantanea adoperato nel caso di specie — che la chat di gruppo di whatsapp consente l’invio contestuale di messaggi a più persone, che possono riceverli immediatamente o in tempi differiti a seconda dell’efficienza del collegamento ad internet del terminale su cui l’applicazione viene da loro utilizzata; i destinatari possono, poi, leggere i messaggi in tempo reale (perché stanno consultando, in quel momento, proprio quella specifica chat) e, quindi, rispondere con immediatezza ovvero, come accade molto più spesso, possono leggerli, anche a distanza di tempo, quando non sono on line ovvero, pur essendo collegati a whatsapp, si trovino impegnati in altra conversazione virtuale e non consultino immediatamente la conversazione nell’ambito della quale il messaggio è stato inviato.

Se questo è, per quanto di specifico interesse in questa sede, il funzionamento del servizio di messaggistica istantanea che viene in rilievo in questo procedimento, se ne può inferire che la percezione da parte della vittima dell’offesa può essere contestuale ovvero differita, a seconda che ella stia consultando proprio quella specifica chat di whatsapp o meno; nel primo caso, vi sarà ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quanti sono i membri della chat perché la persona offesa dovrà ritenersi virtualmente presente; nel secondo caso si avrà diffamazione, in quanto la vittima dovrà essere considerata assente.

Sotto il profilo della prova delle circostanze sopra indicate, per discernere quale sia l’ipotesi alla quale ricondurre il fatto storico, il Giudice di merito dovrà verificare, appunto, se la persona offesa fosse virtualmente presente o assente al momento della ricezione dei messaggi offensivi; attraverso i dati di fatto emersi nel processo, in particolare, il giudicante dovrà comprendere se la persona offesa abbia percepito in tempo reale l’offesa proveniente dall’autore del fatto, accertamento che, quando non siano disponibili dati tecnici più precisi quanto ai collegamenti della persona offesa con il servizio di messaggistica, potrà passare attraverso la verifica di tempi e modi dell’invio dei messaggi e dell’atteggiamento della vittima quale emerge da precisi in dici.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale, a pag. 5 della sentenza impugnata, ha offerto una motivazione non manifestamente illogica circa le ragioni per cui, se inizialmente (tra le ore 9.06 e le ore 9.43) vi era stato una sorta di botta e risposta tra l’imputata e la persona offesa (che potrebbe essere ritenuto sintomatico della percezione in tempo reale delle offese da parte della- omissis -), successivamente quest’ultima non aveva più risposto ai messaggio offensivi, neanche quando, una prima volta, alle ore 10.13, l’imputata aveva scritto “e rispondi vigliacca”, reagendo solo, debolmente, ad una seconda sollecitazione di tal fatta attuata dalla prevenuta alle ore 11.53.

Si tratta di un dato di fatto che lascia ragionevolmente ritenere che, dopo l’atteggiamento partecipativo inizialmente assunto, teso a difendersi dalle accuse che le venivano rivolte, la [omissis] abbia rinunziato al “contraddittorio”, leggendo solo in un secondo momento i messaggi che l’imputata continuava ad inviarle.

Quest’ultima, dal canto suo, aveva percepito come la vittima non fosse più presente, tanto da esortarla a rispondere.

In altri termini, la cronologia dei messaggi riportata nella sentenza impugnata e l’atteggiamento tenuto dalla persona offesa, ma anche dall’imputata, costituiscono indicatori del fatto che la [omissis] non fosse rimasta collegata alla chat in tempo reale e che avesse letto i messaggi successivi alle ore 9.43 a distanza di tempo dal momento in cui erano stati immessi sulla chat, sicché non poteva più considerarsi “presente”, neanche virtualmente, quando l’imputata li aveva immessi sulla chat il che, almeno per la seconda parte dei messaggi, integra il reato di diffamazione e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria”.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA