La responsabilità penale del datore di lavoro non può essere affermata se il dipendente deceduto nell’incidente stradale indossava il casco omologato dalla legge
Segnalo la sentenza numero 34944/2022 – depositata il 21.09.2022, resa dalla quarta sezione penale della Suprema Corte, che affrontando una caso di responsabilità datoriale per un incidente sul lavoro occorso ad un dipendente, ha annullato la sentenza di condanna in applicazione del principio di diritto secondo il quale la condotta antidoverosa dalla quale può derivare una responsabilità penale per colpa presuppone la violazione di una regola cautelare prevista dalla legge.
La Corte di legittimità, nel decidere il caso di specie, ha ritenuto destituita di fondamento giuridico l’argomentazione giuridica sviluppata dalla Corte di appello secondo la quale l’uso del casco integrale da parte del raider deceduto, in luogo del casco aperto tipo jet – omologato dalla legge – avrebbe verosimilmente evitato l’incidente mortale.
Il Supremo Collegio ha ritenuto profondamente viziato l’intero iter logico – giuridico seguito dalla Corte territoriale che aveva desunto la colpa generica del datore di lavoro con giudizio ex post (solo dopo aver conosciuto processualmente la dinamica del sinistro) e non ex ante (prima dell’evento avverso) senza peraltro ancorare il giudizio di colpevolezza a predeterminate conoscenze tecnico-scientifiche o a riconosciute massime di esperienza che potevano costituire il presupposto di un addebito colposo.
L’incidente sul lavoro, il capo di imputazione ed il doppio grado di merito.
La Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, dichiarava l’imputato, tratto a giudizio per omicidio colposo nella sua qualità di quale amministratore unico di una società cooperativa, responsabile del reato di omicidio colposo di un dipendente della medesima cooperativa, che perdeva la vita a seguito dell’incidente occorso mentre si trovava a bordo di un ciclomotore per consegnare delle pizze.
E’ importante segnalare che il Tribunale aveva assolto l’imputato affermando che le condizioni del casco (tipo jet) indossato dal lavoratore al momento del sinistro non avevano inciso sulla produzione dell’evento morte, in quanto il casco in questione, omologato, non avrebbe potuto in alcun modo impedire l’impatto del massiccio frontale con il suolo.
Conseguentemente, secondo il primo Giudice, nessun rimprovero poteva essere elevato contro il datore di lavoro.
Al contrario, la Corte territoriale fiorentina, accogliendo la tesi sostenuta con l’appello del PM, aveva ritenuto che il datore di lavoro, titolare di posizione di garanzia ex art. 2087 cod. civ., era da considerare responsabile per avere consentito al lavoratore di utilizzare un casco di tipo jet, che per le sue caratteristiche, trattandosi di un dispositivo che lascia scoperta la parte frontale del volto, non aveva impedito l’impatto con il suolo proprio della parte della testa priva di protezione.
Quindi, con giudizio controfattuale, la Corte di appello di Firenze aveva sostenuto che se il dipendente avesse indossato un casco integrale, l’evento morte non si sarebbe verificato o comunque le lesioni sarebbero state di minore entità; l’incidente mortale sarebbe quindi stato concretamente prevedibile ed evitabile se, in base ad una valutazione ex ante, il datore di lavoro rinviato a giudizio avesse osservata una regola cautelare di massima prudenza, consistente nel pretendere dal lavoratore l’impiego di un casco integrale, anche tenuto conto della pericolosità dell’attività svolta (condurre un ciclomotore nel traffico cittadino).
Il ricorso per cassazione ed il principio di diritto.
Contro la sentenza resa dalla Corte distrettuale, interponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, articolando plurimi motivi di censura, tesi ad inficiare la infondatezza del giudizio ipotetico espresso dai Giudici di appello, fondato, peraltro, sulla esistenza di un obbligo giuridico non prescritto da alcuna norma (uso del casco integrale in luogo di quello jet).
La Corte regolatrice ha accolto il ricorso annullando senza rinvio la sentenza impugnata e revocando, per l’effetto, le statuizioni civili risarcitorie.
Di seguito si riportano ampi passaggi tratti dal costrutto argomentativo della sentenza in commento di interesse per la presente nota:
“La colpa del [omissis], nella vicenda in esame, è stata motivata sulla base di un ragionamento viziato, frutto di una tipica logica del “senno del poi”, così sintetizzabile: posto che il lavoratore è morto (cadendo dallo scooter sul quale stava trasportando pizze da consegnare a domicilio) per avere battuto la parte frontale del volto (c.d. massiccio frontale) contro il bordo in cemento di una pedana spartitraffico, l’evento mortale non si sarebbe verificato se la persona offesa avesse indossato un casco di tipo integrale, idoneo a proteggere il volto, e non un casco tipo jet (benché omologato), che invece lascia scoperta quella zona del corpo; ergo, il datore di lavoro avrebbe dovuto dotare la persona offesa di un casco di tipo integrale, non consentendogli invece di condurre lo scooter con un casco tipo jet.
Ebbene, premesso che non esiste alcun obbligo di legge che imponga l’uso del casco integrale al lavoratore che si ponga alla guida di un ciclomotore, bastando allo scopo – secondo le previsioni del vigente codice della strada – indossare un qualsiasi tipo di casco omologato, come quello utilizzato dal soggetto deceduto, i giudici fiorentini hanno sostanzialmente eluso la questione, ravvisando una colpa generica “aggiuntiva” del ricorrente, muovendo dalla considerazione che “l’evento sarebbe stato concretamente prevedibile ed evitabile, se (…) si fosse osservata una regola cautelare di massima prudenza, ovvero si fosse preteso dal lavoratore l’uso di mezzi che assicurassero massima sicurezza, rispetto al tipo di attività lavorativa da svolgere”. In tal senso – continuano i giudici fiorentini – “se (…) la vittima avesse utilizzato il casco integrale, l’evento morte derivante dall’impatto con il cordolo dell’isola spartitraffico non si sarebbe verificato, o comunque le lesioni sarebbero state di minore entità, in virtù della migliore protezione assicurata al lavoratore”.
In tal modo, tuttavia, gli stessi giudici hanno ricavato la regola cautelare (che si ipotizza) violata sulla base di una valutazione ex post, partendo cioè dall’evento verificatosi, per poi chiedersi quali precauzioni avrebbero potuto impedirlo, dandosi in tal modo una risposta ovvia (uso del casco integrale che avrebbe protetto il volto).
Per contro, come acutamente osservato in un recente arresto giurisprudenziale, la regola cautelare che si assume violata deve essere preesistente al fatto, nel senso che il comportamento doveroso basato sulla diligenza, prudenza e perizia deve essere desunto in concreto ed “ex ante”, giammai “ex post” (cfr. Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Rv. 281997 – 17; v. anche Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016 – dep. 2017, Rv. 269254 – 01, secondo cui la regola cautelare non scritta eventualmente violata non deve essere frutto di una elaborazione creativa, fondata su una valutazione ricavata “ex post” ad evento avvenuto).
La sentenza impugnata, in effetti, non ha individuato disposizioni che l’uso del casco per la conduzione dei veicoli a due ruote sia comunque regolato dal codice stradale, secondo norme che impongono obblighi specifici, aventi anche natura cautelare, fra cui, appunto, quella che impone l’uso di un casco omologato ,non necessariamente di tipo integrale; ed è pacifico che il casco di tipo jet utilizzato dalla vittima nell’occorso fosse perfettamente in regola con la vigente normativa stradale.
Le argomentazioni della sentenza d’appello, in definitiva, non hanno superato il ragionamento del primo giudice, avendo fondato l’asse della presunta colpevolezza del prevenuto sulla base della individuazione, nel caso concreto, di una colpa generica, desunta ex post e non ancorata a predeterminate (peraltro neanche indicate) conoscenze tecnico-scientifiche o a riconosciute massime di esperienza.
Argomentazioni, quindi, intrinsecamente viziate in diritto in quanto frutto di una inaccettabile elaborazione “creativa”, mentre va qui ribadito che, in tema di colpa generica, la regola cautelare applicabile al caso concreto deve essere preesistente al fatto e desumibile sulla base di un processo ricognitivo, che tenga conto dei tratti tipici caratterizzanti l’evento e del sapere scientifico, tecnico o esperienziale esistente in quel dato momento storico. Si tratta, in altri termini, di individuare una regola cautelare astratta, valida per tutta la categoria di eventi che attengono al caso attenzionato e non solo per il singolo evento concreto.
La Corte territoriale, invece, si è limitata a muovere a ritroso dalla situazione di fatto così come si è verificata, chiedendosi cosa avrebbe impedito il suo dipanarsi, in tal modo “creando” la regola cautelare dell’evento singolare e non una regola astratta, oggettivamente desumibile dai tratti tipici caratterizzanti l’evento e idonea a prevenire eventi del genere di quello effettivamente occorso (cfr. Sez. 4, n. 36400 del 23/05/2013, Rv. 257112 – 01).
Si deve, quindi, concludere nel senso che nell’occorso era consentito alla persona offesa – secondo il codice della strada – circolare sullo scooter con un casco di tipo jet; in tal senso, nessuna colpa specifica è addebitabile al ricorrente.
Le argomentazioni adottate dalla Corte territoriale per affermare, al di là di quanto stabilito dalle regole cautelari previste per legge, la sussistenza di una colpa generica del prevenuto, presentano – sulla scorta delle superiori considerazioni – vizi logico-giuridici evidenti, derivanti essenzialmente da una elaborazione “creativa” (e non ricognitiva) dell’addebito colposo, ed in quanto tali non consentono di superare il giudizio assolutorio formulato in primo grado dal Tribunale”.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA