Condannato per occultamento dei documenti contabili l’imprenditore che si difende sostenendo di aver consegnato agli investigatori copia dei movimenti del conto corrente dai quali poter ricostruire il volume di affari.
Segnalo la sentenza numero 42290.2022, depositata il 09 novembre 2022, con la quale la sezione terza penale della Corte di Cassazione, si è pronunciata sulla questione giuridica della sussistenza o meno del reato previsto e punito dall’art.10 d.lgs. n.74/2000, contestata dalla difesa dell’imputato in ragione della avvenuta produzione della documentazione bancaria attestante i ricavi prodotti dal contribuente, dedotta come equipollente alla fedele consegna delle fatture attive.
Nel caso di specie, la Corte di legittimità, ha ritenuto di dare continuità al dominante orientamento giurisprudenziale secondo il quale anche la minima attività investigativa per ricostruire il reddito imponibile resasi necessaria dalla condotta omissiva del contribuente (che aveva consegnato fatture con importi inferiori a quelli effettivi) costituisce prova del fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice.
Il capo di imputazione ed il doppio grado di merito.
Secondo quanto ricostruito concordemente dai giudici del doppio grado di merito, l’imputato, quale titolare della omonima ditta individuale, con condotta accertata in epoca anteriore al 20 giugno 2018, aveva occultato o distrutto le fatture emesse relative ad operazioni effettuate riconducibili all’anno di imposta 2014 in modo da impedire la ricostruzione del volume di affari al fine di evadere le imposte sui redditi e sull’iva.
Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità ed il principio di diritto.
Contro la sentenza resa dalla Corte territoriale Venezia, interponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, lamentando, per quanto di interesse per il presente commento, l’affermazione della penale responsabilità del giudicabile, ritenuta ingiustificata in quanto il volume degli affari dell’impresa era facilmente ricostruibile semplicemente compulsando il conto corrente della ditta individuale, come peraltro riconosciuto dall’Agenzia delle Entrate.
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.
Di seguito si riportano i passaggi estratti dalla trama argomentativa dell’ordinanza annotata di maggiore interesse per il presente commento:
“…Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000, l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 7051 del 15/01/2019, Ferrigni, Rv. 275005-01, e Sez. 3, n. 36624 del 18/07/2012, Pratesi, Rv. 253365-01).
E nello stesso senso, anche precedenti decisioni avevano affermato che, per l’integrazione del reato di cui all’art. 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (sub specie di occultamento “parziale” di scritture contabili), deve sussistere non l’assoluta impossibilità ma un elevato grado di difficoltà di ricostruire il reale volume degli affari o dei redditi, avuto riguardo esclusivamente alla situazione interna dell’azienda, e che il reato non è escluso dalla circostanza che alla determinazione dei redditi si sia potuti addivenire aliunde (così Sez. 3, n. 5791 del 18/12/2007, dep. 2008, Matta, Rv. 238989-01).
La sentenza impugnata ricostruisce i fatti, indicando le modalità attraverso le quali ritiene avvenuto l’occultamento delle scritture contabili.
La Corte d’appello premette che le indagini sono iniziate a seguito del rilievo di una discrasia tra i dati comunicati nello spesometro e il volume d’affari dichiarato per l’anno 2014.
Rappresenta, poi, che i successivi accertamenti hanno consentito di constatare che le fatture prodotte dall’imputato recavano importi di entità inferiore a quelli indicati nelle fatture reperite presso i clienti, e che gli estratti conto esibiti dall’imputato esponevano dati corrispondenti alle somme appostate nelle fatture acquisite presso i clienti.
Il Giudice di secondo grado conclude che il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili è stato integrato perché l’imputato: -) non ha conservato o distrutto le fatture originali; -) ha prodotto fatture diverse da quelle originali, artificiosamente create in modo da far risultare la corrispondenza del loro importo complessivo al volume d’affari dichiarato; -) gli estratti conto prodotti dall’imputato esponevano sì dati corrispondenti alle somme appostate nelle fatture acquisite presso i clienti, ma per accertare la situazione è stato necessario esaminare le fatture reperite presso i clienti, le quali hanno quindi assunto «una rilevanza decisiva ai fini della definitiva verifica».
Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
Invero, posto che l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili sussiste anche quando è necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante, la sentenza impugnata ha spiegato in modo puntuale e congruo perché, ai fini della ricostruzione del volume di affari dell’impresa del ricorrente, è stato necessario acquisire documenti presso terzi, le fatture detenute dai clienti, anche in ragione della oggettiva non veridicità degli importi recati dalle fatture esibite dal medesimo ricorrente agli organi accertatori”.
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA