Confermata la linea garantista della Cassazione che esclude l’automatica responsabilità penale del prestanome per i reati contro il patrimonio commessi dall’amministratore di fatto della società.

Segnalo la sentenza numero 47259/2022, depositata il 16 dicembre 2022, con la quale la sezione seconda penale della Corte di Cassazione, chiamata a decidere sulla applicabilità di una misura custodiale personale, ha nuovamente affrontato il tema giuridico della responsabilità penale all’amministratore di diritto per i delitti contro il patrimonio commessi dall’amministratore di fatto, effettivo organo gestorio della società.

Nel caso di specie, la Suprema Corte, ha rigettato il ricorso per cassazione interposto dal PM contro l’ordinanza del Tribunale della Libertà che aveva annullato la misura coercitiva degli arresti domiciliari.

La sentenza in commento dà continuità al recente orientamento giurisprudenziale, ad oggi prevalente, che  ha fissato il principio di diritto secondo il quale nell’ordinamento penale non esiste un obbligo giuridico che permetta l’applicazione generalizzata nei confronti dell’amministratore di diritto della clausola di cui all’art. 40 cpv cod. pen. (non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) a tutti i  reati consumati all’interno delle compagini sociali ad opera del dominus occulto.

La medesima questione giuridica è stata decisa in termini del tutto sovrapponibili a quella in commento con la sentenza numero 43969/2022 – depositata il 18/11/2022, resa dalla sezione seconda penale del Supremo Consesso, commentata con una precedente nota alla quale rimando per eventuali approfondimenti: https://studiolegaleramelli.it/2022/11/25/allamministratore-di-diritto-non-possono-essere-ascritti-i-reati-di-riciclaggio-ed-autoriciclaggio-commessi-dal-dominus-occulto-della-societa/

 

L’imputazione provvisoria ed il giudizio cautelare di merito.

Il GIP del Tribunale di Bari applicava all’indagato la misura cautelare degli arresti domiciliari, nella

veste di soggetto indagato per avere partecipato ad un sodalizio criminale dedito alla commissione di più delitti di riciclaggio, autoriciclaggio, trasferimento fraudolento di valori e appropriazione indebita, secondo l’ipotesi accusatoria facendosi attribuire consapevolmente la fittizia carica di amministratore e socio unico, nonché liquidatore di alcune società a responsabilità limitata.

La difesa del prevenuto proponeva riesame contro l’ordinanza coercitiva che veniva accolto dal Collegio cautelare cittadino secondo il quale, dal compendio probatorio raccolto nel corso delle indagini preliminari, non emergeva alcuna prova della condivisione da parte dell’indagato della finalità di agevolazione della commissione dei reati avuta di mira dai soci occulti e dai reali amministratori della società.

Conseguentemente, il ruolo di mero prestanome rivestito dall’indagato, non era  elemento sufficiente a dimostrare la sua consapevolezza in ordine alle attività illecite in provvisoria contestazione, poiché non aveva alcun potere di ingerenza nella gestione delle società da lui solo formalmente amministrate.

 

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità ed il principio di diritto.

Contro l’ordinanza resa dal Collegio cautelare di Bari interponeva ricorso per cassazione l’Ufficio del PM denunciando vizio di legge del provvedimento impugnato che non aveva operato corretta applicazione dei principi di diritto afferenti la penale responsabilità dell’amministratore di diritto derivante dall’abdicazione del suo ruolo di vigilanza.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Di seguito si riportano i passaggi estratti dalla trama argomentativa dell’ordinanza annotata di maggiore interesse per il presente commento:

 

“…Come osservato dal Procuratore generale la giurisprudenza di legittimità ha sempre sostenuto, seppur con le debite differenze nelle varie tipologie di reati economici e tributari, che l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo ponga in essere condotte illecite, consapevolezza che, tuttavia, non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore, essendo necessari “segnali di allarme” dai quali desumere l’accettazione del rischio – secondo i criteri propri del dolo eventuale – del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà – nella forma del dolo indiretto – di non attivarsi per scongiurare detto evento.

 

La stessa giurisprudenza ha precisato che, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale.(Sez. 5n. 7332 del 07/01/2015 Ud. (dep. 18/02/2015 ) Rv. 262767 ).

 

Tuttavia questi principi trovano applicazione nell’ipotesi di violazione dei doveri propri dell’amministratore e cioè la vigilanza in ordine ai criteri di gestione e di economicità dell’impresa e sul regolare assolvimento degli obblighi di contabilità.

 

Tali obblighi giuridici permettono l’applicazione della clausola di cui all’articolo 40 capoverso codice penale, ma non consentono l’estensione di responsabilità dell’amministratore di diritto anche a tutti gli altri reati consumati all’interno di compagini sociali o mediante le stesse, proprio per l’assenza di un obbligo giuridico ricavabile da uno specifico riferimento normativo in tal senso.

 

In sostanza le considerazioni formulate dalla giurisprudenza di legittimità e riferite ad ipotesi di reati tributari, per i quali incombe sull’amministratore di diritto l’onere della regolare tenuta delle scritture e del pagamento delle imposte, non possono essere automaticamente estese alla posizione dell’amministratore di diritto, a fronte di condotte di riciclaggio e autoriciclaggio compiute dei gestori di fatto delle società .

 

La responsabilità a  titolo di concorso dell’amministratore di diritto non può derivare esclusivamente dall’assunzione della carica, poiché le condotte di sostituzione dei proventi illeciti punite dalla fattispecie di riciclaggio e autoriciclaggio costituiscono un quid pluris rispetto alle semplici attività di evasione fiscale e richiedono la prova sotto il profilo soggettivo di un concorso, quantomeno morale, da parte dell’amministratore di diritto e cioè la coscienza e volontà che la società verrà utilizzata anche per il compimento di tali attività, non bastando una generica consapevolezza della destinazione della struttura ad attività di elusione fiscale.

 

Nel caso in esame questa dimostrazione sembra mancare poiché gli indici di rischio che vengono evidenziati dal ricorrente si riferiscono ad attività connesse alla costituzione della società e alla gestione ordinaria e non offrono alcuna dimostrazione della consapevolezza da parte dell’indagato, nella sua veste di amministratore di diritto, della peculiare finalità illecita delle società da lui rappresentate”.

 

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA