E’ il sapere scientifico che deve guidare il Giudice penale chiamato a decidere sulla responsabilità dei sanitari.

Segnalo la sentenza numero 5404/2023 depositata l’08/02/2023, resa dalla Suprema Corte – sezione quarta penale, che si è pronunciata sulla questione giuridica  del percorso metodologico che deve seguire il giudice di merito chiamato a decidere sulla responsabilità dei sanitari rinviati a giudizio per i reati di evento di lesioni colpose od omicidio colposo. 

E’ noto infatti che in ogni giudizio penale incardinato per scrutinare le responsabilità degli imputati in ordine ai delitti previsti e puniti dagli artt.589 o 590 cod. pen., la piattaforma probatoria tecnica si fonda sull’esito delle consulenze tecniche e delle eventuali perizie che offrono interpretazioni e conclusioni spesso contrapposte rispetto al fatto in contestazione, dovendo, quindi, il giudice, che per sua formazione non è dotato di un autonomo patrimonio conoscitivo di segno scientifico, selezionare gli argomenti di maggiore attendibilità e persuasività che orienteranno la sua decisione della quale dovrà spiegare il percorso giustificativo nella motivazione.  

Il caso clinico ed il doppio grado di merito

Secondo quanto emerge dalla lettura della sentenza in commento tre medici chirurghi della stessa clinica privata erano stati rinviati a giudizio di omicidio colposo in quanto, a seguito di un intervento eseguito per rimuovere un polipo intestinale, successivamente all’atto chirurgico, omettevano di procedere ad indagini che il caso richiedeva, così ritardando la diagnosi di peritonite, individuata quale causa del decesso della paziente avvenuto successivamente presso una struttura pubblica. 

Il tribunale di Napoli aveva condannato gli imputati, ritenendoli responsabili di un errore diagnostico, visto che dal terzo giorno dell’intervento il paziente aveva cominciato a presentare dolori addominali e complicazioni respiratorie che li avrebbero dovuti indurre ad effettuare immediati accertamenti clinico-strumentali all’addome, invece di limitarsi ad esplorare eventuali problemi cardiologici.

In esito al condotto giudizio controfattuale il primo giudice aveva, quindi, ritenuto che qualora l’operato dei sanitari fosse stato più diligente indagando il sopraggiunto problema settico post-operatorio del paziente sarebbe stato possibile scongiurare l’exitus infausto.  

La Corte di appello, per contro, assolveva gli imputati, ritenendo non compiutamente raggiunta la prova in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la condotta degli imputati e il decesso del paziente, in ragione della difficoltà di collocare temporalmente l’insorgenza della peritonite.

Il giudizio di cassazione ed il principio di diritto. 

Contro la sentenza resa dalla Corte territoriale  interponevano ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale presso la Corte di appello, sia le parti civili denunciando plurimi vizi di legge e di motivazione.

La Corte di legittimità, con la sentenza annotata, ha ritenuto fondata l’impugnazione di legittimità per la carenza di motivazione della sentenza resa in grado di appello nella quale non erano state compiutamente esplicitate le ragioni per le quali il Collegio era pervenuto ad un esito assolutorio totalmente difforme rispetto a quanto statuito in primo grado, disponendo nuovo giudizio di merito. 

Di seguito vengono di seguito  riportati i passaggi della motivazione di interesse per il presente commento: 

La Corte territoriale, rispetto a quanto accertato dal primo giudice, si è limitata a ravvisare la sussistenza del ragionevole dubbio in ordine alla esatta collocazione temporale dell’infarto intestinale e dell’insorgere della peritonite, aggiungendo che dai dati clinici non sarebbe emerso “con tranquillizzante certezza se sia stata la peritonite a provocare l’infarto intestinale (…) con conseguente deiscenza dell’anastomosi, ovvero se, al contrario, sia stato l’infarto intestinale a determinare la deiscenza con la conseguente peritonite”; affermazione di per sé confusa e congetturale, in nessun modo argomentata dal punto di vista scientifico.

Sotto questo profilo, è appena il caso di rilevare che buona parte delle considerazioni sviluppate nella sentenza impugnata a fondamento dell’assoluzione, appaiono, sul piano della loro elaborazione, prive di supporto scientifico, non avendo la Corte territoriale ritenuto necessario svolgere un accertamento peritale che avrebbe potuto contribuire a chiarire i dubbi palesati.

Tuttavia, come chiarito dalla sentenza Sez. 4, n. 43786 del 17/9/2010, Cozzini, Rv. 248944, il sapere scientifico è indispensabile strumento al servizio del giudice di merito, in special modo per tutte le volte in cui l’indagine sulla relazione eziologica o, comunque, sull’esatta natura e sviluppo di una malattia, si colloca su un terreno caratterizzato da lati oscuri.

In tale prospettiva, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare (cfr., in motivazione, Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019) il ruolo di metodologo ed  epistemologo che l’ordinamento assegna al giudice di merito, quale professionista al quale sono demandati i compiti decisori, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. 

La necessaria razionalità del discorso giustificativo della decisione giudiziaria impone, infatti, di bandire le teoriche che erano basate sull’intuizionismo del giudicante, chiamato a governare saperi extra-giuridici. 

Nel giudizio di stampo accusatorio, il giudice, in veste di metodologo, deve razionalmente selezionare il sapere accreditato che può utilmente orientare la decisione: in tale ambito funzionale, il giudicante assume il ruolo di custode (gatekeeper) della piattaforma probatoria, che si forma nel contraddittorio delle parti, che dibattono anche sulla individuazione, sul contenuto e sull’affidabilità delle tesi scientifiche di riferimento. 

Il giudice è perciò chiamato a sviluppare – quale peritus peritorum, nei sensi ora chiariti – un preliminare esame di ordine epistemologico che involge la stessa affidabilità delle diverse tesi – spesso contrapposte – che consulenti tecnici e periti veicolano nel giudizio (cfr., in tal senso, la già citata Sez. 4, n. 24372/2019).

Nel caso in disamina, invece, i giudici di appello hanno sostanzialmente abdicato a tale ruolo, avendo preferito rielaborare i dati processuali e clinici già sottoposti al vaglio del primo giudice, valorizzando solo quelli in apparente contrasto con l’ipotesi della infiammazione in atto sin dai primi giorni della fase post-operatoria, senza peritarsi di supportare e argomentare il ravvisato ragionevole dubbio su solide (o, quantomeno, apprezzabili) basi epistemologiche”.

By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.