La visita nello studio privato del medico che opera in intra moenia allargata non esclude il delitto di peculato se il sanitario non versa alla struttura pubblica la quota di compenso dovuta.

Segnalo la sentenza di legittimità numero 6945/2023 depositata il 17/02/2023, resa dalla Suprema Corte – sezione sesta penale, che si è pronunciata sulla questione giuridica della configurabilità del delitto di peculato nei confronti del medico che, operando in regime di intra moenia (c.d allargata), visita i pazienti presso il proprio studio professionale e non si cura di versare la quota di compenso alla struttura pubblica dovuta in forza della convenzione in essere tra le parti.

Nel caso di specie il sanitario, assolto all’esito del giudizio di primo grado, era stato condannato dalla Corte di appello di Brescia per il reato previsto e punito dall’art. 314 cod. pen. a lui ascritto per non avere corrisposto all’Azienda ospedaliera per cui lavorava all’epoca dei fatti in contestazione, la percentuale delle somme incassate per le visite mediche eseguite presso il proprio ambulatorio privato in regime di c.d. intra moenia allargata.

Contro la sentenza di appello veniva interposto ricorso per cassazione fondato su plurimi motivi di censura; con una articolazione difensiva  veniva denunciato vizio di legge della sentenza impugnata in quanto, secondo la tesi del giudicabile, il reato di peculato si può configurare a carico del sanitario solo se il professionista utilizza le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa.  

Tale circostanza non ricorreva nel processo de quo facendo venir meno il requisito del nesso tra l’azione del medico e la cosa pubblica, derubricandolo il nesso funzionale in senso meramente occasionale.

La Suprema Corte ha rigettato il superiore motivo di ricorso per le ragioni giuridiche riportate nei passaggi che seguono, estratti dalla parte motiva della sentenza: 

“Il ricorrente deduce la non configurabilità del delitto di peculato, in primo luogo, per difetto del requisito rappresentato dal c.d. nesso funzionale che deve connotare il possesso del denaro (o di altra cosa mobile) altrui e che, nell’economia della fattispecie, funge da presupposto della condotta appropriativa.

La questione, in altri termini, riguarda l’interpretazione della locuzione “per ragione del suo ufficio o servizio”, elemento ritenuto insussistente nel caso di specie dalla pronuncia di primo grado ed invece integrato dalla pronuncia di appello.

Sul punto, nella giurisprudenza si è da tempo delineata una bipartizione tra concezione occasionale e concezione funzionale del nesso.

Questo Collegio ritiene che vada accordata preferenza alla seconda, posto che l’interpretazione che attribuisce rilievo a situazioni in cui il pubblico ufficiale abbia il possesso di denaro (o della cosa mobile) altrui per ragioni meramente contingenti, oltre a discostarsi dal senso testuale delle parole, destruttura il tipo del peculato, sminuendone la costruzione come reato proprio. 

Oscura il dato dello sviamento della cosa dalla sua destinazione alla finalità di pubblico interesse ad opera proprio di quel soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) che, invece, avrebbe dovuto assicurarla. Con altre parole, la concezione occasionale del nesso nega rilievo al profilo dell’abuso che, elemento non espresso di fattispecie, catalizza però per larga parte il disvalore del tipo.

Il delitto di peculato è, infatti, sì posto a tutela dell’interesse patrimoniale, peraltro dal testo legislativo non necessariamente riferito alla pubblica amministrazione (potendo il denaro o la cosa essere anche di terzi privati). Ma tale interesse patrimoniale è strumentale alla realizzazione di scopi istituzionali da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio. Sicché, in ultima analisi, nella frustrazione di tali scopi consiste la lesione del bene “buon andamento della pubblica amministrazione” (art. 97 Cost.) tutelato dalla fattispecie e la cui offesa giustifica una risposta sanzionatoria così rigorosa per il peculato il cui disvalore, a ragionare in modo diverso (e cioè in base alla concezione occasionale), in nulla differirebbe da quello di un reato comune contro il patrimonio, quale l’appropriazione indebita o il furto.

Ciò premesso, dalla pronuncia impugnata è emerso che [omissis]: aveva effettuato visite presso il proprio studio in regime di c.d. intra moenia allargato, senza indirizzare i pazienti al CUP dell’Ospedale; non aveva rilasciato documento fiscale; non aveva versato all’ospedale la quota di competenza di compenso negli episodi accertati nel periodo 2012-2013, come spiegato dalla difesa, addirittura eludendo il meccanismo predisposto dalla struttura sanitaria di riferimento.

La circostanza che la condotta di [omissis] sia stata contra legem, in uno con il fatto che i pazienti si rivolgessero al dott. [omissis] in ragione della sua fama, non rendono tuttavia “occasionale” il suo rapporto con il denaro pubblico: non tolgono che l’appropriazione della quota spettante alla struttura ospedaliera sia avvenuta in ragione funzionale del suo pubblico ufficio. 

Non negano, dunque, la configurabilità del delitto di peculato nelle ipotesi contestate.

Per le ragioni appena esposte, non si rileva alcun vizio nella motivazione della sentenza impugnata che, nel qualificare i fatti come peculati, ha espressamente dichiarato di aderire ad altro, peraltro maggioritario, orientamento giurisprudenziale che, in situazioni sovrapponibili a quella oggetto del presente giudizio, ravvisa pacificamente la sussistenza del reato (ex multis, Sez. 6, n. 23792 del 10/03/2022, Negro, Rv. 283274; Sez. 6, n. 15945 del 18/02/2021, Del Gaudio, Rv. 280967; Sez. 6, n. 29782 del 16/03/2017, Tenaglia,Rv. 270556)”.

By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.