Il risarcimento del danno dovuto per le conseguenze di un incidente sul lavoro solo in casi eccezionali può essere limitato per la successiva colpa medica.
Segnalo la sentenza numero 23178/2023, depositata il 31/05/2023 resa dalla Suprema Corte di Cassazione – sezione quarta penale, che ha affrontato il tema giuridico dell’incidenza sulla quantificazione del danno dovuto a seguito di infortunio sul lavoro per effetto della condotta dei sanitari che intervengono nella cura del paziente dopo l’incidente.
Nel caso di specie, i giudici del doppio grado di merito, avevano, concordemente, affermato la penale responsabilità dell’imputato, rinviato a giudizio per lesioni colpose in qualità di amministratore di una società e datore di lavoro dell’infortunato.
La condotta colposa ascritta al datore di lavoro si riferiva alla violazione dei seguiti obblighi: mancata consegna dei dispositivi di protezione individuale; mancata formazione/informazione dell’operaio e mancata previsione del rischio specifico che ha dato causa all’infortunio nel P.O.S. e nel D.V.R., fatti questi che secondo l’editto accusatorio avevano creato le condizione per il verificarsi dell’evento infausto.
Nel corso del processo era stato accertato che il dipendente della società, operaio con mansioni di “tuttofare”, utilizzando un badile per colpire di taglio una radice sporgente, era stato colpito da una scheggia metallica riportando una malattia e l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per più di 40 giorni con indebolimento permanente della vista.
La difesa dell’imputato interponeva ricorso per cassazione contro la sentenza resa dalla Corte territoriale di Trento, impugnando anche il capo di sentenza relativo al risarcimento del danno disposto dal Giudice penale, sostenendo che la gravità del danno subito all’occhio doveva essere messa in relazione all’imperizia dei sanitari e non alla ferita provocata dalla scheggia.
La Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso fissando il principio di diritto che segue:
“Ed invero, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la tesi difensiva che sembra ipotizzare una condotta colposa della vittima o di terzi soggetti successivamente all’infortunio con conseguente efficienza causale rispetto all’indebolimento permanente dell’organo, non trova alcun appiglio nell’istruttoria espletata.
Ritiene, poi, il Collegio di aderire al principio secondo cui l’eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un infortunio sul lavoro, ancorché di elevata gravità, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l’infortunio e la successiva morte della vittima (o l’aggravamento delle lesioni) posto che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale (cfr. Sez. 4, n. 25560 del 02/05/2017 Ud. -dep. 23/05/2017- Rv. 269976).
In altri termini, la morte della vittima è addebitabile al comportamento dell’agente, perché questi, provocando le originarie lesioni, ha reso necessario l’intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un’ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale (v. Sez. 4, n. 20270 del 06/03/2019, Rv. 276238; Sez. 4, n. 41943 del 04/10/2006, Rv. 235537).”.
By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.