L’estorsione del datore di lavoro verso il dipendente è configurabile solo in presenza di un rapporto contrattuale in essere tra le parti.
Segnalo la sentenza numero 7128/2024 − depositata il 16/02/2024, resa dalla Suprema Corte – sezione seconda penale, che si è pronunciata sul tema giuridico delle condizioni che devono ricorrere affinché possa configurarsi il delitto di estorsione a carico del datore di lavoro che impone condizioni economicamente vessatorie ai sottoposti dietro la minaccia di licenziamento.
Nel caso di specie i giudici del doppio grado di merito avevano, concordemente, affermato la penale responsabilità dell’imputato, rinviato a giudizio per i delitti di estorsione in danno di più persone in relazione a condotte lesive della loro libera autodeterminazione.
Con il ricorso per cassazione la difesa del giudicabile aveva articolato plurimi motivi di impugnazione, censurando anche il capo di sentenza relativo alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto previsto e punito dall’art. 629 cod. pen.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso annullando con rinvio l’impugnata sentenza tracciando il discrimen tra condotte estorsive e quelle prive di disvalore penale:
“Emerge, dunque, dalla comparazione delle decisioni su indicate come il discrimine che segna il confine tra ipotesi di opportunistica ricerca di forza lavoro tra categorie di soggetti in attesa di occupazione e condotte riconducibili al paradigma del delitto di estorsione è rappresentato dall’esistenza di un rapporto di lavoro già in atto, pur se solo di fatto o non conforme ai tipi legali, rispetto al quale integra il fatto tipico del delitto di cui all’art. 629 cod. pen. la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro, attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo concluso tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l’interruzione del rapporto (attraverso il licenziamento del dipendente o l’imposizione delle dimissioni).
Il vantaggio perseguito (costituente ingiusto profitto) può essere rappresentato non solo da modificazioni delle pattuizioni contrattuali che riducano o eliminino diritti del lavoratore (ciò che costituisce il danno subito dalla persona offesa), consentendo al datore di lavoro risparmi di spesa o minori esborsi, ma anche dall’imposizione di formule contrattuali che, simulando la regolamentazione del rapporto in termini difformi da quelli reali e riconoscendo al dipendente livelli retributivi e indennità in realtà non corrisposte, comporta per il datore di lavoro il vantaggio di impiegare dipendenti con condizioni contrattuali apparentemente rispettose delle norme inderogabili a tutela dei diritti dei lavoratori, mentre costoro sono costretti a subire conseguenze patrimoniali negative (ad esempio, risultando percettori di redditi in misura superiore a quella reale, con i connessi obblighi tributari: per l’ipotesi della sottoscrizione di buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate, Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, cit.).
La Corte territoriale ha omesso di operare il necessario accertamento, per ciascuno dei lavoratori indicati nelle imputazioni come soggetti alle condotte di pressione psicologica da parte del ricorrente, diretto a verificare se le minacce messe in atto dall’imputato fossero dirette all’instaurazione del rapporto di lavoro a determinate condizioni ovvero se, in presenza di un rapporto già avviato, pur se “in nero”, fossero rivolte alla rinuncia alle condizioni contrattuali convenute o ad altri diritti spettanti ai singoli lavoratori”.
By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.