La mancata individuazione dell’indirizzo IP da cui è partito il post diffamatorio non esclude la possibilità di condannarne l’autore se identificabile sulla base di convergenti dati indiziari.

Segnalo la sentenza numero 7358/2024 – depositata il 19/02/2024, resa dalla sezione quinta penale della Cassazione, che si è pronunciata sul tema giuridico della possibilità di ascrivere la penale responsabilità all’imputato, presunto autore di un messaggio offensivo veicolato tramite social network, in assenza di accertamenti tecnici per l’individuazione dell’indirizzo da cui è stato trasmesso.

La sentenza annotata si pone in continuità con precedenti arresti giurisprudenziali  dello stesso segno secondo i quali, facendo applicazione della regola processuale dettata dal codice di rito penale che definisce le coordinate della prova indiziaria (indizi gravi, precisi e concordanti), l’Autorità giudiziaria giudicante può affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato per il delitto previsto e punito dall’art.595 cod. pen., pur in assenza di accertamenti svolti dalla Polizia Postale per individuare l’IP del mittente.  

Nel caso in disamina, secondo la concorde valutazione dei giudici del doppio grado di merito, l’imputato era stato ritenuto responsabile di diffamazione aggravata per avere pubblicato sulla piattaforma Facebook espressioni offensive della reputazione del gestore di una struttura alberghiera, poi costituitosi parte civile. 

La difesa dell’imputato interponeva ricorso per cassazione deducendo, tra i vari motivi di doglianza, anche l’incertezza in ordine alla identificazione dell’autore del reato in assenza di verifica dell’IP da cui era partito il post denigratorio.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso. 

Di seguito si riporta il passaggio della motivazione della sentenza di interesse per la presente nota che enuncia quali fossero i dati indiziari che avevano consentito ai giudicanti di stabilire con certezza l’identità dell’autore del reato: 

“Il primo motivo è manifestamente infondato, perché reiterativo di censure – attinenti, tutte, al merito – già disattese con argomenti logicamente coerenti, oltre che fondati, dal punto di vista più strettamente giuridico, su orientamenti giurisprudenziali correttamente indicati dalla Corte d’appello. 

Quest’ultima ha esaurientemente illustrato, infatti, il percorso logico che ha portato ad attribuire all’imputato la paternità dei post diffamatori, viste le pregresse discussioni tra persona offesa e imputato circa le condizioni della struttura alberghiera e la qualità del menu. 

Centrato è altresì il rilievo della Corte territoriale concernente la mancata prospettazione, da parte della difesa, di una credibile alternativa ricostruzione fondata sull’accesso abusivo da parte di terzi nel profilo della pagina Facebook dell’imputato, recante nome ed effige dello stesso. 

A tal riguardo, va rimarcato come l’eccezione difensiva si ponga in palese contrasto con quanto già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito del carattere non necessario dell’accertamento tecnico relativo alla titolarità dell’indirizzo IP, da cui risultano spediti i messaggi offensivi. 

Infatti, «ai fini dell’affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l’accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell’indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo “facebook” sia attribuibile all’imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l’argomento del “forum” sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del “postdalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo “nickname”» (Sez. 5, n. 38755 del 14/07/2023, L., Rv. 285077 – 01).

Nel lamentare l’inidoneità del compendio probatorio a fondare l’ascritta responsabilità per il reato in parola, il motivo di ricorso elude del tutto il confronto con la motivazione dell’ impugnata sentenza, che è conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «in tema di diffamazione a mezzo “internet” anche in mancanza di accertamenti informatici sulla provenienza dei “post”, è possibile riferire il fatto diffamatorio al suo autore su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali: il movente; l’argomento trattato nelle frasi pubblicate o il tenore offensivo dei contenuti; il rapporto tra le parti; la provenienza dei messaggi dalla bacheca virtuale dell’imputato, con utilizzo del “nickname” dello stesso; l’assenza di denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatario del “profilo” sul quale vi è stata la pubblicazione dei “post” incriminati» (Sez. 5, n. 25037 del 17/03/2023, Melis, Rv. 284879 – 01, ex multis)”.

Per eventuali approfondimenti si indicano ulteriori arresti giurisprudenziali in linea con il medesimo orientamento oggetto di precedenti note: 

(i)   La riconducibilità del post diffamatorio al titolare del profilo Facebook può derivare da plurimi elementi indiziari, tra i quali la pubblicazione del post sulla pagina dell’imputato, nonché dalla mancata denuncia del furto di identità. – Avvocato Diritto Penale Roma Eur (studiolegaleramelli.it)

(ii); Diffamazione a mezzo Facebook: la paternità degli scritti pubblicati non richiede una rogatoria in USA se è ricavabile da altre prove acquisite al processo. – Avvocato Diritto Penale Roma Eur (studiolegaleramelli.it)

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA