Il medico di base non risponde di rifiuto di atti di ufficio al pari della guardia medica istituzionalmente preposta ad intervenire sulle urgenze.
E’ il principio di diritto statuito dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza numero 24722/2024 – depositata il 21/06/2024, che ha affrontato la questione giuridica della rilevanza penale che può assumere la condotta omissiva tenuta dal medico di base rispetto alla richiesta di intervento domiciliare avanzata da un proprio assistito.
Nel caso in disamina, la Corte di appello, assolveva l’imputato dal reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, comma 1, cod. pen.) per il quale il giudicabile era stato condannato in primo grado perché, in qualità di medico di assistenza primaria, aveva omesso di effettuare, nonostante le continue richieste di intervento dei familiari, una visita domiciliare a scopo diagnostico e terapeutico ad un assistito che lamentava forti dolori a seguito caduta accidentale, anziano e affetto da patologie (Parkinson avanzato, cardiopatia ischemica cronica), condizioni che gli impedivano di recarsi presso l’ambulatorio.
Il Procuratore Generale interponeva ricorso per cassazione sostenendo, in linea con quanto ritenuto dal primo giudice che l’imputato, nonostante la chiamata del paziente, fosse rimasto volontariamente inerte in violazione dell’art. 47, comma 1, dell’Accordo Collettivo Nazionale vigente all’epoca dei fatti (del 23/03/ 2005) che sancisce uno specifico obbligo per i medici di base di effettuare la visita domiciliare al paziente nel caso di non trasferibilità dell’ammalato.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso validando il percorso argomentativo seguito dal collegio di secondo grado, fondato sulla netta distinzione degli obblighi giuridici posti a carico, rispettivamente, del medico di base (ora medico di assistenza primaria) e della guardia medica (ora medico della continuità assistenziale).
Di seguito si riportano i passaggi estratti dalla parte motiva della sentenza in commento:
“….All’esito assolutorio della sentenza in appello il Procuratore Generale ricorrente oppone l’omessa considerazione di quanto disposto dall’art. 47, comma 1, dell’Accordo Collettivo Nazionale vigente all’epoca dei fatti (del 23/03/2005), a mente del quale «l’attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell’ammalato» : disposizione invece menzionata nella sentenza di primo grado, dalla quale deriverebbe – deve inferirsi – la fonte dell’obbligo di agire, tale da giustificare l’integrazione del reato omissivo, oltre al dedotto vizio motivazionale.
In realtà, la disposizione in oggetto non è affatto sfuggita alla Corte d’appello la quale, seppur senza citarla espressamente, in un punto della pronuncia, vi ha fatto un chiaro riferimento, precisando di non fare «questione di adempimento o meno del dovere giuridico del medico di base di procedere a visita a domicilio del paziente non trasportabile, quanto solo dell’esistenza o meno nel caso concreto di un dovere di procedere senza ritardo ad un tale incombente […], dovere di urgenza né ordinariamente pretensibile dal medico di medicina generale né specificamente dall’imputato in considerazione delle circostanze del caso concreto.
In un altro passaggio, in modo ancora più inequivoco, i Giudici di secondo grado hanno inoltre ritenuto che «il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118», aggiungendo che «da ciò deriva che per fondare uno specifico obbligo giuridico di prestazioni sanitarie urgente, anche nelle more del servizio di emergenza, da parte di un pubblico ufficiale sanitario a ciò non preposto, sarebbe stata necessaria una peculiare situazione di prossimità spaziale di necessità non indifferibile […], ben distante dall’ordinarietà degli accadimenti.
Nessuna lacuna motivazionale è, dunque, ravvisabile nella sentenza impugnata la quale distingue, al contrario, in modo netto, il profilo della trasferibilità del paziente (toccato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell’urgenza della prestazione richiesta : urgenza in presenza della quale – come nel caso di specie – , trasferibile o meno che fosse il paziente, i Giudici hanno ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, e cioè, nella specie, dei medici del c.d. 118.
Tale ricostruzione non è certo illogica e tantomeno destituita di fondamento dal punto di vista della teoria del reato.
Anzi, assume in modo corretto una ripartizione di ruoli la quale, nell’ottica del penalista, deve orientare l’interprete nell’individuazione dell’obbligo giuridico che, sempre, nei reati omissivi – anche quelli c.d. propri – costituisce il fondamento della tipicità penale.
Distinzione di ruoli che, in genere, trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare il miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un’organizzazione complessa qual è il sistema sanitario, consentendo a ciascun operatore del settore di concentrarsi sui propri compiti specifici.
Distinzione che, inoltre, nei casi come quello di specie, risponde inoltre all’esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili (il medico di base non essendo attrezzato per far fronte alle urgenze), ma anche potenzialmente dannose, ove – come ben possibile – foriere di ritardi e confusioni.
È, infine, il caso di precisare che la ricostruzione operata nella sentenza impugnata non contrasta con la consolidata giurisprudenza di questa Corte.
È vero che, secondo i giudici di legittimità, il delitto di rifiuto di atti d’ufficio è integrato dalla condotta del sanitario in servizio di guardia medica che non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente nella persuasione “a priori” della falsità o enfatizzazione dei sintomi denunciati dal paziente, posto che l’esercizio del potere-dovere di valutare la necessità della visita sulla base della sintomatologia esposta, sicuramente spettante al professionista, è comunque sindacabile da parte del giudice al fine di accertare se esso non trasmodi nell’assunzione di deliberazioni ingiustificate ed arbitrarie, scollegate dai basilari elementi di ragionevolezza desumibili dal contesto storico del singol o episodio e dai protocolli sanitari applicabili (tra le tante, Sez. 6, n. 23817 del 30/10/ 2012, dep. 2013, Tomas, Rv. 255715) – conclusione ritenuta valida anche là dove l’iniziale diagnosi sia stata confermata all’esito del successivo controllo ospedaliero del paziente (Sez. 6, n. 12143 del 11/02/ 2009, Bruno, Rv. 242922) e recentemente ribadita per il caso di malato terminale che abbia optato per l’assistenza domiciliare, in relazione alla somministrazione delle cure palliative (legge 15 marzo 2010, n. 38).
Tale consolidata giurisprudenza, tuttavia, si riferisce alla differente figura professionale c.d. medico di guardia, oggi normativamente definito “medico del servizio di continuità assistenziale” a cui i vari accordi collettivi nazionali avvicendatisi nel tempo hanno – non per nulla -finora assegnato un obbligo di pronta reperibilità che, invece, non è previsto per il medico di assistenza primaria.
Sul tema giuridico della responsabilità penale della guardia medica (ora medico della continuità assistenziale) si segnalano le note a sentenza che seguono:
By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.