La frase offensiva pubblicata nella chat di gruppo Whatsapp non integra l’aggravante del mezzo di pubblicità della diffamazione.

Con la sentenza numero 42783/2024 (depositata il 21/11/2024),  la sezione prima penale della Corte di cassazione, si è pronunciata sull’interessante questione giuridica della insussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 595, terzo comma, c.p., nell’ipotesi in cui l’espressione offensiva dell’altrui reputazione venga veicolata nella chat di gruppo del noto sistema di messaggistica istantanea.

Il Collegio del diritto, con la sentenza annotata, ha messo in luce con estrema chiarezza le ragioni della diversa (e consolidata) qualificazione giuridica del medesimo fatto offensivo quando l’azione illecita viene commessa attraverso la piattaforma Facebook, ovvero quella di altro social network.

La Corte di legittimità, accogliendo l’interposto ricorso per cassazione, ha fissato i principi di diritto riportati nel segmento di motivazione di seguito riportata:

…….Tuttavia, gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo. In particolare una chat dell’applicativo Whatsapp è, per le sue caratteristiche ontologiche, uno strumento di comunicazione di certo ‘agevolante’ ma al contempo ‘ristretto’, nel senso che il messaggio (di testo o immagine che sia) raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti (e reciprocamente accettatisi) alla medesima chat.

La giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ritenuto che la pubblicazione di post lesivi sulla piattaforma social Facebook integri l’aggravante del mezzo di pubblicità. Vanno in tal senso indicate le decisioni Sez. I n. 55142 del 2014 e Sez. V n. 13979 del 25.1.2021, rv 281023, ove si pone l’accento sulla oggettiva potenzialità che, in tal caso, ha il testo lesivo di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.

Tuttavia a parere del Collegio vi è una rilevante diversità – esclusivamente ai fini della integrazione della particolare aggravante – tra l’utilizzo di un social (strumento che si rivolge – per definizione – ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata) e l’utilizzo di una chat di messaggistica ristretta.

Ad essere rilevante, invero, non è il numero di iscritti alla chat quanto la «conformazione tecnica» del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta – in tutta evidenza – riservato.

La diffusione del messaggio a più soggetti – gli iscritti alla chat – avviene, in altre parole, in un contesto informatico che se da un lato consente la rapida divulgazione del testo dall’altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone. La tensione con il principio di tassatività in ambito penale, ove si voglia realizzare una equiparazione tra i diversi strumenti comunicativi, in rapporto ad una previsione di legge ove si evoca un ‘mezzo di pubblicità’, appare del tutto evidente [..]

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA