Il prestanome della società cooperativa risponde del delitto di indebita compensazione per avere accettato la carica gestoria senza esercitare alcun potere di controllo.
E’ il principio di diritto ribadito con la sentenza numero 1757/2025 (udienza 10.12.2024 – data di deposito 15.01.2025) resa dalla Corte di cassazione – sezione terza penale, che è tornata ad affrontare il tema della responsabilità penale del prestanome rinviato a giudizio per rispondere di reati tributari commessi a vantaggio della persona giuridica rappresentata.
La questione di interesse per la presente nota riguarda il coefficiente psicologico del reato previosto e punito dall’art.10 quater d.lgs. n.74/2000 che, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, deve ricorrere per affermare la responsabilità penale dell’amministratore di diritto della società, ancorché abbia assunto tale qualità solo sul piano formale, trattandosi di ente gestito da uno o più soggetti occulti.
Nel caso di specie i giudici del doppio grado di merito, decidendo con il rito abbreviato, avevano, concordemente, affermato la penale responsabilità degli imputati giudicati nella loro qualità di amministratori di società cooperative per il delitto di indebita compensazione, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.
La difesa dei giudicabili con il ricorso per cassazione aveva dedotto, tra i vari motivi di doglianza, il vizio di legge e di carenza di motivazione in ordine alla prova del dolo richiesto dalla norma incriminatrice.
Si è sostenuto, invero, che i ricorrenti, in quanto mere teste di legno, non erano a conoscenza dei fatti contabili inerenti l’attività gestionale che potessero destare in loro qualsivoglia sospetto in ordine a condotte decettive integranti la fattispecie di reato fiscale loro contestato.
La Suprema Corte, dando ulteriore continuità ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto infondata la superiore doglianza validando l’operato dei giudici del merito per le ragioni che seguono:
[…Nel ricorso si lamenta che il dolo richiesto dalla norma incriminatrice non poteva discendere “dall’apposizione della firma su un atto notarile”, lasciando così intendere che si era pervenuti al verdetto di condanna solo per il fatto che gli imputati avevano accettato di ricoprire la carica di amministratori di società da altri gestite.
Sennonché, il ragionamento probatorio fondante la condanna valorizza non soltanto il ruolo di prestanome svolto dagli imputati ma anche il fatto che le società formalmente da loro amministrate erano “scatole vuote”.
Tale risultanza, indice inequivoco della macroscopica illiceità della funzione svolta dalle cooperative, e l’individuazione quali legali rappresentanti nonostante l’incompetenza in materia societaria costituivano, ad avviso dei giudici di merito, elementi che avrebbero dovuto indurre gli imputati a non assumere il ruolo di amministratori o, in alternativa, ad esercitare i poteri di controllo e gestione derivanti dalla carica ricoperta.
La posizione di prestanome, quindi, costituisce uno degli elementi del ragionamento probatorio che, unitamente all’insussistenza delle società, all’ incompetenza gestoria e al disinteresse nei confronti dell’amministrazione societaria, fonda il concorso degli imputati, ex art. 40 comma 2 cod. pen. e 2392 cod. civ., a titolo di dolo eventuale nei delitti ritenuti, avendo accettato di esporsi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali”].
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA