L’identificazione e la condanna dell’imputato per un articolo diffamatorio pubblicato sul blog non richiede necessariamente l’indagine sull’indirizzo IP.

Con la sentenza  numero 12283/2025 –  depositata in data 28/03/2025 (udienza pubblica 25/02/2025), la Corte di cassazione – sezione quinta penale, è tornata ad affrontare la questione giuridica della prova processuale sull’identificazione dell’autore di un articolo diffamatorio pubblicato sul blog o sito online che può essere posta a fondamento della sentenza di condanna, oltre ogni ragionevole dubbio.  

  1. La contestazione penale e la decisione conforme dei giudici del merito.

I Giudici del doppio grado di merito condannavano, concordemente, l’imputato ritenuto colpevole  del reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., per aver pubblicato un articolo su un sito online giudicato lesivo della reputazione della persona offesa.

 

  1. Il ricorso per cassazione dell’imputato.

Per quanto di interesse per la presente nota, si evidenzia che la difesa del giudicabile con un motivo di doglianza lamentava vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione all’identificazione certa dell’imputato quale autore dell’articolo diffamatorio.

In particolare, veniva censurata la carenza di motivazione della sentenza di secondo grado che non aveva fornito adeguata risposta al motivo di appello con il quale era stato ventilato l’eventuale, indebito, utilizzo del nickname dell’imputato da parte di terzi soggetti rimasti ignoti, secondo la difesa possibile  anche perché era mancato un accertamento dell’indirizzo IP di provenienza del documento diffamatorio.

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  1. La decisione della Suprema Corte ed il principio di diritto.

La Suprema Corte, ha  rigettato il ricorso, dando continuità ai principi diritto che seguono già elaborati dalla giurisprudenza di legittimità:

“….La Corte d’appello ha basato la sua decisione su una serie di elementi concorrenti, tra cui la testimonianza del teste di polizia giudiziaria, che ha affermato che l’utente in altri articoli pubblicati sullo stesso blog, di solito utilizzava il nome completo dell’imputato, e che l’imputato aveva una partita IVA per “altri servizi di informazione”.

La Corte d’Appello ha inoltre sottolineato che non ha denunciato alcun abuso del suo nickname.

Orbene, questa Corte intende dare continuità all’orientamento secondo cui la riferibilità del fatto diffamatorio all’imputato non può essere esclusa sol perché non siano stati svolti accertamenti tecnici sui dati informatici (qual è quello sulla provenienza del messaggio, mediante verifica dell’indirizzo IP), che non rivestono certo il valore di prova legale necessaria.

La prova, infatti, può essere desunta anche da una pluralità di dati convergenti e precisi, quali: il movente; l’argomento trattato nelle frasi pubblicate; il rapporto tra le parti; la provenienza dei messaggi dalla bacheca virtuale dell’imputato, con utilizzo del “nickname” dello stesso; infine, l’assenza di denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatario del “profilo” sul quale vi è stata la pubblicazione dei “post” incriminati (in tal senso, Sez. 5, n. 25037 del 17/03/2023, Rv. 284879-01).

Nella specie, i giudici di merito basano la loro decisione sostanzialmente sull’utilizzo di un nickname, altre volte associato, nello stesso blog al nome dell’imputato (che non contesta che in simili casi gli scritti fossero a lui riferibili) e sulla mancata denuncia contro ignoti per l’utilizzo del detto pseudonimo, tanto più necessaria in caso di suo abusivo utilizzo in un contesto in cui esso era, per l’appunto, pacificamente utilizzato dall’imputato”.

Sulla stessa linea interpretativa si segnala il seguenti arresto giurisprudenziale annotato:

(i) https://studiolegaleramelli.it/2024/02/25/la-mancata-individuazione-dellindirizzo-ip-da-cui-e-partito-il-post-diffamatorio-non-esclude-la-possibilita-di-condannarne-lautore-se-identificabile-sulla-base-di-convergenti-dati-indiziari/

Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.