Dichiarazione infedele per mancata indicazione nella dichiarazione fiscale dei redditi dei ricavi ottenuti dalla vendita di NFT.
Questo è il principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione sezione terza penale con la sentenza numero 8269/2025 – pronunciata il 15.10.2024 (depositata il 28.02.2025), chiamata allo scrutinio di legittimità sulla legittimità del sequestro preventivo disposto nei confronti di un artista di opere d’arte digitali per il reato previsto e punito dall’art.4 d.lgs. n.74/2000.
- L’incolpazione provvisoria ed il giudizio cautelare di merito.
Nel caso in disamina il Tribunale di Torino, in funzione di giudice della cautela reale, ha rigettato la richiesta di riesame presentata dall’indagato – soggetto sottoposto ad indagini preliminari in relazione ad una provvisoria imputazione avente ad oggetto la violazione dell’art. 4 del dlgs n.74 del 2000, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, indicato nelle dichiarazioni dei redditi per gli anni di imposta 2021 e 2022 elementi attivi di redditi in misura inferiore a quella effettiva, in tal modo omettendo di versare le imposte sul reddito personale per euro 836.375,54 così confermando il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari in sede.
- Il ricorso per cassazione dell’indagato.
La difesa dell’indagato interponeva ricorso per cassazione articolando due distinti motivi di impugnazione, il primo riguardante la condotta materiale sussunta nel delitto tributario contestato, il secondo afferente l’elemento psicologico del delitto di dichiarazione infedele, dichiarato inammissibile in relazione alla natura della censura rispetto alla fase procedimentale.
Per quanto riguarda prima doglianza, di interesse per la presente nota, si evidenzia che il ricorrente, aveva censurato la decisione del Tribunale perché errata nel ritenere applicabili ai presunti redditi prodotti dall’artista digitale i principi giuridici ed i criteri propri della ermeneutica dell’art. 53 del Tuir, a mente dei quali sono da considerare redditi da lavoro autonomo, come tali tassabili, quelli derivanti, fra l’altro, dalla utilizzazione economica delle opere dell’ingegno.
Nel caso in disamina, ha opinato la difesa, che oggetto della transazione commerciale non era l’opera d’arte digitale ma è il suo non fungible token (NFT), cioè un certificato digitale che ne certifica la proprietà e l’autenticità digitale a formare oggetto di trasferimento.
Conseguentemente, esulando l’NFT – certificato -dal concetto di opera dell’ingegno, il reddito prodotto tramite la sua commercializzazione non rientrerebbe fra i redditi tassabili ai sensi della citata norma fiscale.
Inoltre, secondo il ricorrente, era da ritenersi altresì inapplicabile alla fattispecie in esame quanto disposto dall’art. 54, comma ottavo, del Tuir, disposizione che prevede che i redditi imponibili conseguiti attraverso, fra l’altro, la commercializzazione delle opere dell’ingegno sono costituiti dai proventi in danaro ovvero in natura percepiti nel periodo di imposta, abbattuti in misura variabile in base alla età anagrafica del contribuente in relazione alla forfettizzazione delle spese di produzione.
Sul punto è stato osservato che essendo espresso in “criptovalute” il controvalore delle transazione aventi ad oggetto gli NFT, segnatamente “moneta virtuale” denominata Ether negoziata su di una piattaforma denominata Ethereum, il reddito prodotto attraverso tali valute, non essendo riconducibile né al concetto di danaro né al concetto di beni in natura, esulerebbe rispetto alla nozione di reddito imponibile per come veicolata tramite il citato art. 54, comma ottavo, del Tuir.
- La decisione della Suprema Corte.
La Corte di legittimità ha ritenuto infondato il superiore, articolato, motivo di ricorso, per le ragioni riportate nei passaggi della motivazione di seguito riportati.
3.1. L’applicabilità al caso di specie dell’art. 53 Tuir: l’NFT costituisce opera dell’ingegno ed i ricavi ottenuti dalla loro cessione sono soggetti a tassazione e devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi.
“[……osserva il Collegio che non ha colto nel segno il ricorrente allorché ha ritenuto che legittimamente siffatti redditi non dovevano essere inseriti nelle dichiarazione dei redditi da lui predisposte in quanto non rientranti in alcuna della categorie di reddito indicate dall’art. 53, comma 2, lettera b), del Tuir.
Infatti, la disposizione dianzi ricordata prevede espressamente che sono redditi da lavoro autonomo, e come tali suscettibili di generare imposte, “i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali”.
Indubbiamente fra le opere dell’ingegno debbono essere ricomprese le opere qualificabili, in senso lato, artistiche e, pertanto, anche le opere di cybergraphic realizzate dal ricorrente, destinate a circolare, avendo peraltro anche un discreto mercato, nel particolare settore commerciale destinato a tale tipo di prodotti dell’attività umana.
Non deve ritenersi che costituisca un ostacolo alla riconducibilità alla nozione di reddito imponibile derivante dalla utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno il fatto che oggetto della transazione commerciale sia non immediatamente l’opera ma l’NFT in cui la stessa è incorporata; invero la particolare natura meramente “virtuale” (in quanto non riconducibile ad un sopporto materiale sul quale essa insista) dell’opera in questione comporta che la stessa, sebbene ciò possa avvenire per scelta elettiva e non per una necessità cogente ed ineludibile, risulti essere, per usare l’espressione che lo stesso ricorrente ha adoperato, “incorporata” nell’nft che, appunto, ne costituisce certificato di proprietà e di autenticità.
Sì tratta, in sostanza, si allude appunto all’nft di uno strumento rappresentativo dì un altro bene che, appunto, ne “incorpora”, seppure virtualmente, tutte le caratteristiche e tutte le specificità, di tal che l’eventuale reddito derivante all’autore dell’opera artistica dalla cessione dello strumento che la contiene (si immagini analogamente a quanto avviene per il supporto digitale sul quale è riprodotto un brano musicale) è indubbiamente un reddito che a quello deriva dalla commercializzazione dell’opera dell’ingegno da lui creata.
D’altra parte, così come non vi è dubbio che genera fonte di reddito imponibile la compravendita di titoli rappresentativi di merci, deve, parimenti, ritenersi che analoghi effetti abbia il traffico di altro, ma analogo, genere di strumenti, ove gli stessi siano rappresentativi di altro, ma sotto il profilo che interessa comparabile, genere di beni patrimonialmente valutabili, ove lo stesso commercio sia realizzato in termini economicamente rilevanti….]
3.2. L’irrilevanza ai fini degli obblighi fiscali dichiarativi e contributivi dell’utilizzo delle criptovalute come strumento di pagamento per la cessione degli NFT.
[……Anche il successivo profilo impugnatorio dedotto con il primo motivo di ricorso dalla difesa del [omissisi] è privo di fondatezza; egli ha, infatti, tacciato di erroneità giuridica l’assunto fatto proprio dal Tribunale subalpino secondo il quale non è possibile qualificare in alcuna delle categorie reddituali previste dall’art. 54, comma 8, del Tuir i proventi da lui conseguiti attraverso la commercializzazione degli nft incorporanti le sue opere di cybergraphics in quanto le relative transazioni che sono state operate prevedono quale moneta di scambio una “criptovaluta”, nella specie quella già ricordata recante il nome di Ether.
Appare opportuno, dato il relativamente recente palesarsi di tali elementi di conto esprimenti valori, cercare, nei limiti in cui una tale opera è funzionale alla presente attività giurisdizionale, fornirne una definizione.
L’espressione che meglio appare rappresentativa di quelle che vengono definite ordinariamente “criptovalute” e che meglio ne compendia le caratteristiche è quella di “valuta virtuale”, intendendosi per tale, secondo la volontà del legislatore nazionale (si veda, infatti, al riguardo l’art. 1, lettera d) , del dlgs n. 184 del 2021, non casualmente rubricato sotto il titolo “Definizioni”), “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro, ma è accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio, e che può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”.
Ritiene il Collegio che – non diversamente da quanto si verifica nel caso in cui il reddito conseguito sia espresso non in termini monetari ma sia egualmente costituito da un bene avente un valore economico, per il quale sia possibile, attraverso una meccanismo di “stima monetaria”, la riconduzione ad un valore suscettibile di essere quantificato tramite il riferimento ad una moneta corrente – il relativo valore, una volta che sia stato conseguito sia tale, una volta operata la sua conversione in moneta, da costituire reddito imponibile.
Infatti una tale operazione è evidentemente accessibile ove il bene costituente incremento patrimoniale sia costituito da un bene in natura, ma ciò non solo a condizione che questo sia stato il frutto immediato della attività svolta dal soggetto che tale reddito abbia conseguito; si vuole con ciò intendere che – – per rendere meglio il concetto con un esempio – tale operazione è legittimamente realizzata non soltanto nelle ipotesi in cui il reddito in natura sia il frutto diretto della attività materiale svolta dal contribuente, costituendo, pertanto, reddito imponibile non solamente il danaro che il lavoratore, sia dipendente che autonomo, percepisce attraverso la corresponsione del suo compenso reso in moneta, ma anche in rapporto al diverso tipo di beneficio che egli possa conseguire in quanto, ad esempio, venga posta a sua disposizione anche una residenza di servizio (in tale senso, infatti: Corte di cassazione, Sezione V civile, 25 novembre 2015, n. 24007, rv 637509) ovvero consegua, per la sua opera, una diversa tipologia di compenso che non la moneta corrente.
Accertato, quindi, che nell’ambito del concetto di “provento in natura”, atto a costituire reddito imponibile, deve essere ricompreso ogni altro beneficio patrimonialmente valutabile riveniente al contribuente in quanto frutto, in questo caso, della utilizzazione economica delle opere dell’ingegno prodotte dal medesimo, e dato per assodato che la commercializzazione degli nft rappresentativi delle opere d’arte realizzate dal [omissis] avviene, tramite la piattaforma Ethereum, attraverso l’accreditamento in favore del “conto” intestato all’autore dell’opera di un certo numero di Ether; si tratta di valutare se siffatte “valute virtuali” siano beni, ancorché immateriali, dotati di una rilevanza patrimoniale.
La circostanza, non oggetto di contestazione quanto alla sua rilevanza storica, che la “criptovaluta” utilizzata sulla piattaforma Ethereum abbia a sua volta un mercato nel quale la stessa riceve una valutazione, questa volta espressa in moneta corrente (è circostanza indifferente che tale moneta sia costituita da una divisa estera ovvero da una unità di conto ordinariamente in uso per le attività commerciali svolte all’interno del territorio dello Stato, in quanto il valore della prima è eventualmente facilmente convertibile nel valore della seconda), fa sì che indubbiamente il valore della “criptovaluta” abbia una rilevanza economica e che, pertanto, il suo ammontare conseguito dal singolo contribuente sia idoneo a costituire reddito . imponibile prodotto da quest’ultimo, soggetto, pertanto, dapprima a dichiarazione e, poi, a tassazione.
Potrebbe essere posta in contestazione – attesa la “volatilità” dei valori espressi in “criptovalute” e pertanto la loro variabilità nel tempo assai più spiccata di quelle propria di altro genere di valute – la determinazione, e la congruenza delle modalità del suo accertamento, del valore normale dell’Ether indicativo dell’ammontare della somma imponibile che il contribuente avrebbe dovuto indicare nella sua dichiarazione dei redditi (contestazione che, peraltro, non risulta essere stata formulata dalla difesa del – omissis -), ma non il fatto che la sommatoria di tale genere di beni (le “criptovalute” accreditate sul suo conto virtuale), espressa secondo il loro valore normale in valuta corrente, ove gli stessi siano stati conseguiti attraverso una delle attività produttive di reddito imponibile, non costituisca, a sua volta, provento soggetto a tassazione secondo i temini normativi fissati dal Tuir.
Deve, a conclusione dell’esame del primo dei motivi di ricorso formulati dalla difesa del – omissis , formularsi, pertanto, il seguente principio di diritto, secondo il quale, in linea astratta, integra gli estremi del fumus delicti, nella specie si tratta dell’art. 4 del dlgs n. 74 del 2000, legittimante la adozione delle opportune misure cautelari reali, la omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi dei proventi, conseguiti tramite l’accredito di “criptovalute”, derivanti dalla cessione di opere d’arte, o comunque dell’ingegno, digitali, costituendo l’ammontare di siffatto accredito reddito imponibile ai sensi degli artt. 53 e 54 del dPR m. 917 del 1986, recante “Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi”, ove il valore normale degli stessi, convertiti in valuta corrente, superi le soglie di punibilità previste dal citato art. 4 del dlgs n. 74 del 2000..]”
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Sul tema della natura giuridica della moneta virtuale ed i corollari applicativi in sede penale si segnala la seguente nota a sentenza: https://studiolegaleramelli.it/2025/01/20/la-cassazione-annulla-il-sequestro-probatorio-di-bitcoin-eseguito-nei-confronti-del-contribuente-infedele-per-il-profitto-del-reato-tributario/
Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA