La Cassazione fissa i principi che tratteggiano il perimetro della responsabilità penale del prestanome nei reati di bancarotta.
La Corte di cassazione – sezione quinta penale con la sentenza numero 7264/2025 – pronunciata il 12.12.2024 (depositata il 21.02.2025), ha affrontato l’importante questione giuridica dell’individuazione degli indici di condotta da ricercare nell’operato dell’amministratore della società, che ricopre solo formalmente l’incarico, per poterne affermare la responsabilità nell’ipotesi di rinvio a giudizio per reati fallimentari.
Invero, nella prassi giudiziaria, non è affatto infrequente che la gestione effettiva dell’attività di impresa sia riconducibile ad uno o più soggetti occulti e che, al contempo, l’amministrazione sia stata affidata ufficialmente ad altro soggetto privo di effettivi poteri di controllo sull’impresa, definito come “testa di legno”, “prestanome” o “uomo di paglia”.
Chiaramente a seguito della trasmissione della relazione ex art. 33 legge fallimentare del curatore fallimentare alla Procura della Repubblica territorialmente competente, se evidenziati dei fatti di reato, il primo soggetto che il PM iscriverà nel Registro Notizie di Reato sarà l’amministratore in carica alla data del fallimento (momento di consumazione del reato di bancarotta), salvo altri.
La sentenza in commento declina il tema in riferimento alle diverse fattispecie di bancarotta contestate nel caso scrutinato ed è di estremo interesse per orientare la difesa sia nella fase di selezione delle scelte del rito (giudizio ordinario, abbreviato o applicazione pena – cosiddetto “patteggiamento”), sia per l’articolazione dei mezzi di prova nell’ipotesi in cui si reputi conveniente affrontare il dibattimento.
- L’imputazione e l’esito dei giudizi di merito.
Nel caso in disamina i giudici del doppio grado di merito avevano, concordemente, affermato la penale responsabilità dell’imputata, rinviato a giudizio nella sua qualità di amministratrice di diritto della società fallita per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta impropria da operazioni dolose per il sistematico mancato pagamento di un ingente debito verso l’Erario.
Dalla lettura della sentenza in commento si ricava che la responsabilità dell’imputata, quanto alla consapevolezza degli illeciti a lei contestati, era stata considerata provata sia quale conseguenza della assunzione della carica con assunzione dei relativi obblighi, sia per avere sottoscritto una fideiussione personale.
- Il ricorso per cassazione.
La difesa dell’imputata interponeva ricorso per cassazione articolando plurimi motivi di impugnazione.
Per quanto di interesse per la presente nota si evidenzia che con una doglianza era stato eccepito il vizio di motivazione della sentenza impugnata che aveva del tutto trascurato la circostanza che l’imputata aveva svolto solo la funzione della cd. testa di legno, tanto da non essere nota a nessuno dei fornitori.
La Corte territoriale, ha opinato la difesa, non avrebbe chiarito quali fossero i segnali di allarme che l’imputata avrebbe dovuto cogliere in ordine alla condotta dell’amministratore di fatto, non potendo ritenersi utile a tal fine la sola disponibilità a fungere da prestanome.
Inoltre, la sottoscrizione di una fideiussione personale da parte dell’amministratrice in favore della società, contrariamento a quanto ritenuto di giudici di merito che l’avevano valorizzata come indice di responsabilità, non sarebbe indicativa del dolo, bensì dell’assenza di consapevolezza quanto alle condotte illecite poste in essere dall’amministratore di fatto.
- La decisione della Suprema Corte.
Il Collegio del diritto ha ritenuto fondato il superiore motivo di ricorso e, per l’effetto, annullato con rinvio la sentenza impugnata, facendo applicazione al caso di specie dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità intorno al tema della colpevolezza del prestanome, da declinare con specifico riferimento alla singola fattispecie penale fallimentare.
Di seguito si riporta il segmento di motivazione di interesse per la presente nota:
3.1. Il dolo del prestanome nella bancarotta fraudolenta documentale.
[Quanto al ricorso proposto nell’interesse di (omissis), lo stesso è fondato.
A ben vedere, la Corte di appello trae la prova della responsabilità della (omissis), amministratrice prestanome, da tale circostanza e dalla sottoscrizione della fideiussione dei debiti societari della fallita, valutandolo come un atto di gestione.
A ben vedere, però, va anche evidenziato come nella verifica del caso concreto emerge che l’imputata sia stata prestanome del B. per la durata di otto mesi, circostanza ammessa in sede di dichiarazioni spontanee dall’imputata (cfr. sentenza impugnata, fol. 6).
La Corte di appello richiama una giurisprudenza in tema di responsabilità del prestanome — rispetto alla bancarotta patrimoniale per distrazione — che richiede la generica consapevolezza da parte della testa di legno delle condotte distrattive dell’amministratore di fatto, potendo il dolo essere integrato anche nella forma eventuale.
Nel caso in esame, va evidenziato che occorra definire quale sia il contenutovdel dolo della bancarotta fraudolenta documentale nell’ipotesi in cui il reato sia imputato all’amministratore formale, che si rivela in realtà essere un mero prestanome degli effettivi gestori della società fallita.
Come richiamato in motivazione da Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021, La Porta, Rv. 282280 – 01, «deve ritenersi pacifico che l’assunzione solo formale della carica gestoria non consenta l’automatica esenzione dell’amministratore per i reati previsti dagli artt. 216 comma 1 n. 2), 217 comma 2 e 220 legge fall., atteso che questi e non altri è il diretto destinatario ex art. 2392 c.c. dell’obbligo relativo alla regolare tenuta e conservazione dei libri contabili (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 43977 del 14/07/2017, Pastechi, Rv. 271754).
Da qui il corollario per cui, qualora egli deleghi ad altri in concreto la tenuta della contabilità o comunque consenta che altri assumano di fatto la gestione della società, egli non è esonerato dal dovere di vigilare sull’operato dei delegati o degli amministratori di fatto e, conseguentemente, dalla responsabilità penale, eventualmente in forza del disposto di cui all’art. 40 comma 2 c.p., se viene meno a tale dovere (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 36870 del 30/11/2020, Marelli, Rv. 280133)».
D’altro canto, però «[s]e non sussiste alcuna automatica esenzione di responsabilità per l’amministratore solo “formale”, nemmeno può, però, altrettanto automaticamente affermarsi la sua responsabilità dolosa per le condotte incriminate dalla legge fallimentare sulla base della mera carica ricoperta e dell’integrazione dell’elemento materiale del reato.
Ed è questo il senso dell’orientamento che è venuto consolidandosi nella giurisprudenza di questa Corte, per cui è necessaria la dimostrazione, non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno, attentandosi altrimenti al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816; Sez. 5, Sentenza n. 642 del 30/10/2013, dep. 2014, Demajo, Rv. 257950; Sez. 5, n. 40176 del 02/07/2018, Mastroeni, non massimata; Sez. 5, n. 40487 del 28/05/2018, Bruccoleri, non massimata; Sez. 5, n. 34112 del 01/03/2019, Alessio, non massimata)».
Seppur in relazione alla bancarotta generica, Sez. 5 La Porta afferma che «Sul piano della prova, è ovvio che l’assunzione solo formale della carica costituisce un importante indizio della configurabilità del dolo richiesto per la sussistenza del reato menzionato e che, in alcuni casi, le concrete circostanze in cui è avvenuta, l’indizio può trasformarsi in prova diretta dell’elemento psicologico tipico.
Ma per l’appunto è l’analisi delle circostanze concrete del fatto che possono restituire la prova della componente rappresentativa del dolo ed è dunque compito del giudice rifuggire da rigidi automatismi probatori evidenziando le specifiche ragioni per cui sia possibile ritenere, nei termini suindicati, che l’amministratore formale sia consapevolmente concorso nella realizzazione del reato».
A ben vedere nel caso in esame si verte in tema di bancarotta documentale specifica, per sottrazione di tutte le scritture, cosicché è richiesto il dolo specifico di voler pregiudicare i creditori.
Ebbene, se è consentito ed è ammissibile il concorso in un reato a dolo specifico di chi abbia agito con dolo eventuale, in quanto la struttura di quest’ultimo si caratterizza per un contenuto rappresentativo e volitivo tali da includere, con effettività e concretezza, anche la specifica finalità richiesta ai fini dell’integrazione del reato (Sez. 3 , n. 23335 del 28/01/2021, Alecci, Rv. 281589- 06, in tema di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio), deve anche richiamarsi Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104 – 01: il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi.
Le Sezioni Unite, poi, chiariscono come per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank).
A ben vedere, essendo necessaria la verifica nel caso concreto di tali principi, in relazione alla bancarotta documentale per sottrazione l’oggetto del dolo è proprio tale ultima condotta, cosicché occorre comprovare che l’imputata avesse la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto, nel caso di specie della omessa istituzione ovvero della sottrazione o distruzione delle scritture con finalità di pregiudizio per i creditori o di ingiusto profitto per taluno (cfr. anche Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, Loda, Rv. 279831 – 01, nel caso di bancarotta fraudolenta documentale e di fallimento per effetto di operazioni dolose di una società “cartiera”, in cui la prova del dolo dell’amministratore di diritto è stata desunta dalla dichiarata conoscenza della indisponibilità di un magazzino a fronte di un elevato fatturato; Conf. Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Rv. 263225-01).
L’analisi degli elementi addotti dalla Corte di appello — accettazione della carica quale prestanome e sottoscrizione della fideiussione — risultano carenti e insufficienti a integrare la prova del dolo eventuale richiesto, anche alla luce delle verifiche sollecitate dalle Sezioni unite.
A ben vedere, il solo dato dell’accettazione della carica non è in sé sufficiente, mentre la sottoscrizione della fideiussione, che comunque esponeva l’imputata ulteriormente da un punto di vista patrimoniale, ha valore ambivalente, come osserva la ricorrente: potrebbe anche dimostrare l’assoluta inconsapevolezza dell’imputata, stante il valore dell’atto pregiudicante per la stessa come garante, il che potrebbe rappresentare in sé un dato rilevante solo a fronte di compensi significativi in cambio dell’aver ‘prestato il nome’.
In tal senso nessuna indagine è stata effettuata, anche quanto ai ‘segnali di allarme’ che l’amministratrice di diritto, negli otto mesi di amministrazione formale, avrebbe dovuto cogliere.
3.2. Il dolo del prestanome nella bancarotta per effetto di operazioni dolose.
Ne consegue l’annullamento con rinvio sia per il delitto di bancarotta documentale, sia anche per quello di bancarotta a mezzo di operazione dolose, che richiederebbe la conoscenza — nei termini indicati finora — delle condotte di evasione delle imposte che condussero al fallimento la società.
Difatti, come accade per la bancarotta distrattiva, se è vero che l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico (art. 2392 cod. civ.) di impedire, e, è anche vero che dal punto di vista soggettivo occorre sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali, esponeva o riconosceva passività inesistenti e, nel caso in esame, svolgesse attività di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ponendo in essere le operazioni dolose (Sez. 5, n. 11938 del 09/02/2010 – dep. 26/03/2010, Mortillaro e altri, Rv. 246897 ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha ampiamente argomentato in ordine all’effettiva consapevolezza da parte degli amministratori di diritto delle condotte dell’imputato, desumendone la prova dagli stessi verbali del consiglio di amministrazione).
Ovviamente, a differenza del dolo da distrazione, nel caso delle operazioni dolose il ‘fuoco’ del dolo deve riguardare le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. che consistono, nel caso di specie, nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, De Mattia, Rv. 273337 – 01; conf. n. 12426 del 2014 Rv. 259997 – 01, n. 29586 del 2014 Rv. 260492 – 01, n. 47621 del 2014 Rv. 261684 – 01, n. 15281 del 2017 Rv. 270046 – 01; nello stesso senso Sez. 5, n. 22765 del 18/02/2021, Rossin, n.m.).
In particolare, quanto al profilo causale va richiamato il principio che la fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose, prevista dall’art. 223, comma secondo, n. 2, legge fall., presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, ma da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato e si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui al combinato disposto degli artt. 223, comma primo, e 216, comma primo, n. 1), legge fall. – in cui, invece, le disposizioni di beni societari (qualificabili in termini di distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) sono caratterizzate, secondo una valutazione “ex ante”, da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Mora, Rv. 279071 – 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti, Rv. 247314 – 01). E dunque il dolo in questione deve riguardare la generica consapevolezza di tale complessità delle operazioni”].
Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA