L’attività diagnostica svolta all’interno di un centro commerciale per l’erogazione di servizi di telemedicina è legittima anche in assenza dell’autorizzazione sanitaria regionale.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza n. 38485/2019 – depositata il 17.09.2019, con la quale la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità del sequestro preventivo disposto sulle apparecchiature di autodiagnosi presenti in un centro commerciale, non sussistendo il presupposto del fumus commissi delicti ritenuto che, le attività sanitarie di autodiagnosi effettuate nella struttura, non configurano “prestazioni sanitarie tipiche” soggette al rilascio dell’apposita autorizzazione regionale sanitaria.

L’imputazione provvisoria ed il giudizio cautelare.

Il Tribunale del riesame di Roma rigettava la richiesta di riesame proposta avverso il decreto di sequestro preventivo disposto dal Giudice per le indagini preliminari sulle apparecchiature diagnostiche in uso ad una società che aveva attivato un servizio di autodiagnosi per i pazienti all’interno del centro commerciale.

La notizia di reato era stata acquista a seguito dell’ispezione compiuta del N.a.s dei Carabinieri Di Roma che accertavano la presenza di apparecchiature medico diagnostiche e di una persona che in qualità di infermiera aveva il compito di accogliere i pazienti, raccogliere il consenso informato, sottoporli ai richiesti accertamenti clinici per poi trasmettere i dati ottenuti ad uno studio medico polispecialistico nel quale operavano i sanitari che provvedevano alla redazione del referto.

L’autorità giudiziaria ritenendo violata la prescrizione prevista dall’art 193 del TULS aveva proceduto su richiesta del P.m. all’esecuzione del sequestro in via di urgenza, convalidato dal Gip emittente la misura cautelare reale impugnata.

Il ricorso per cassazione ed il principio di diritto.

Avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, interponeva ricorso per cassazione la difesa del legale rappresentante della società titolare delle apparecchiature presenti all’interno del centro commerciale, che censurava il provvedimento de quo con un unico motivo di impugnazione, lamentando violazione di legge in ordine all’art 193 TULS del quale non ricorrevano i presupposti.

Il Supremo Collegio ha accolto il ricorso, annullando con rinvio l’ordinanza impugnata.

Di seguito si riportano i passaggi estratti del compendio motivazionale della sentenza in commento che affrontano il tema della qualificazione giuridica del fatto e la sua sussunzione nell’ipotesi di reato in provvisoria contestazione.

(i) L’insussistenza del fumus commissi delicti legittimante il sequestro preventivo disposto sui sui macchinari:

Approcciando, infatti, a questo punto più direttamente i termini della presente vicenda si rileva che alla omissis, nella indicata qualità, è stata provvisoriamente contestata la violazione dell’art. 193 del regio decreto n. 1265 del 1934, di seguito TULS, il quale, nel testo attualmente vigente prevede, per quanto ora interessa, che nessuno possa aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico senza la speciale autorizzazione allora – secondo la versione originaria della norma legislativa – del Prefetto, ed ora – tenuto conto dei mutati assetti ordinamentali – della Regione.

L’eventuale violazione di tale disposizione, cioè l’apertura ovvero il mantenimento in esercizio di una tale struttura in assenza della prescritta autorizzazione, è punita dalla legge, per come emerge dal tipo di sanzione prevista, in quanto costituente una contravvenzione penalmente rilevante.

Ribadendo un concetto già svolto in sede di ricorso di fronte al Tribunale del riesame, la ricorrente ha contestato la legittimità della ordinanza impugnata, dovendo, a suo avviso, escludersi il fatto che la strutturane cui apparecchiature sono state oggetto di sequestro potesse essere qualificata fra quelle per le quali vi è la necessità della previa acquisizione della autorizzazione regionale.”

Al riguardo le argomentazioni di diverso segno articolate nel provvedimento impugnato appaiono censurabili. Invero, premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della integrazione del reato in questione è necessario che nella struttura, avente una finalità imprenditoriale e non meramente libero professionale, siano erogate, in assenza di autorizzazione, prestazioni “tipicamente sanitarie“, quali, a titolo puramente esemplificativo, quelle relative alla somministrazione di farmaci, ovvero alla assistenza medica ed infermieristica, anche laddove connesse a strutture a carattere residenziale (Corte di cassazione, sezione III penale, 13 gennaio 2012, n. 883), oppure relative alla medicina estetica e dermatologica (Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 giugno 2007, n. 21806) ovvero odontoiatrica (Corte di cassazione, Sezione III penale, 12 giugno 2007, n. 22875), si rileva che un tale requisito necessita che all’interno della detta struttura siano compiuti atti aventi una rilevanza medica, sebbene non necessariamente a contenuto immediatamente terapeutico, quali, ad esempio, gli atti comportanti una valutazione diagnostica di elementi acquisiti in via diretta o attraverso strumenti di vario genere (Corte di cassazione, Sezione III penale 25 maggio 2007, n. 20474), non potendo, invece, qualificarsi tali né gli atti il cui svolgimento è scevro da una qualsivoglia attività organizzativa né gli atti nei quali è lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici che, eventualmente, egli successivamente trasferirà al personale sanitario (si immagini la rilevazione operata dallo stesso soggetto interessato della propria temperatura corporea ovvero del peso o della pressione arteriosa, sistolica e diastolica), tramite l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 febbraio 1998, n. 1345). “

 

 (ii) Il principio di diritto ed il vizio di legge dell’ordinanza impugnata:

“E’, secondo quanto emergente dagli atti, sostanzialmente questo secondo il caso in attuale esame; infatti, per come lo stesso Tribunale di Roma ha riconosciuto, la metodica seguita presso il centro omissis prevedeva che chi intendesse fruire dei servizi da questo offerto era dapprima generalizzato da una persona addetta ed informato da questa di quanto sarebbe di lì a poco avvenuto, quindi sottoposto a taluni esami strumentali, privi secondo quanto risultante dagli atti, di qualsivoglia invasività fisica, i cui dati venivano trasmessi, attraverso canali informatici, ad uno studio medico polispecialistico, denominato omissis, regolarmente autorizzato dalla Regione Lazio, ove gli stessi erano esaminati dal personale medico ivi operante che, una volta processati i dati in tal modo pervenuto, eseguiva la relativa diagnosi che era, pertanto, trasmessa all’omissis e comunicata al paziente.

Si è, in sostanza, di fronte a quel fenomeno, comunemente definito di “telemedicina” come ricordato dallo stesso Tribunale del riesame, il quale si caratterizza in quanto, per la realizzazione di talune pratiche mediche, per lo più diagnostiche, non vi è la necessaria compresenza nel medesimo luogo del paziente e dell’operatore sanitario, operando quest’ultimo sulla esclusiva base di dati a lui pervenuti attraverso tecnologie informatiche il cui utilizzo, appunto, consente lo svolgimento di atti medici anche “fra assenti”.

“Tanto considerato, ritiene il Collegio che gli elementi che il Tribunale di Roma ha, invece, ritenuto significativi ai fini della affermazione della riconducibilità alla società amministrata dalla omissis della erogazione della prestazione sanitaria sono, in realtà, quanto meno equivoci.

Invero, il Tribunale ha escluso che la omissis potesse essere considerato un semplice centro di raccolta di dati, preposto al mero raccordo telematico fra i pazienti ed i sanitari operanti presso l’ambulatorio omissis, in quanto il listino dei prezzi relativo alle singole attività diagnostiche strumentali offerte agli utenti risulta redatto su carta intestata “omissis” e rimanda, secondo quanto rilevato dal Tribunale del riesame, in ordine alle tipologie di esse alle “Prestazioni erogate presso gli omissis ed in quanto il personale della predetta società presente in loco coadiuva i pazienti nello svolgimento della attività di acquisizione dei dati attraverso l’utilizzo dello strumentario diagnostico posto a disposizione.

Si tratta, come dianzi osservato, di elementi dimostrativi quanto meno equivoci e comunque non decisivi, posto che, relativamente al primo, esso non ha alcuna valenza al fine di dimostrare che presso l’omissis si svolga una qualche attività afferente alla erogazione di una “prestazione sanitaria”, in quanto i dati in tal caso valorizzati, attengono a profili di carattere organizzativo economico e prescindono totalmente dal dato sostanziale riguardante l’effettivo compimento presso la struttura  dell’omissis di una qualsivoglia attività medica. Il secondo è parimenti non decisivo in quanto, per come descritta nella stessa ordinanza impugnata, l’attività svolta dalla unica dipendente della impresa della omissis in servizio presso omissis non appare né necessaria, in quanto potrebbe essere anche svolta autonomamente dai pazienti, né, comunque, caratterizzata da alcun profilo di rilevanza medica, consistendo in un mero supporto logistico e pratico (l’acquisizione delle generalità degli utenti, il trasferimento a questi di una serie di informazioni, la trasmissione dei dati allo Studio ove operano i medici omissis la ricezione della diagnosi da costoro formulata, la sua materiale consegna al soggetto interessato e, si suppone, anche la riscossione del controvalore della prestazione erogata) fornito agli utenti del servizio, privo di risvolti aventi una qualche specifica valenza sanitaria.”

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Riferimento normativo.

Art. 193 r.d. del 27/07/1934 – N. 1265

Nessuno può aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, case o pensioni per gestanti, senza speciale autorizzazione del prefetto, il quale la concede dopo aver sentito il parere del consiglio provinciale di sanità (1).

L’autorizzazione predetta è concessa dopo che sia stata assicurata la osservanza delle prescrizioni stabilite nella legge di pubblica sicurezza per l’apertura dei locali ove si da alloggio per mercede.

Il contravventore alla presente disposizione ed alle prescrizioni, che il prefetto ritenga di imporre nell’atto di autorizzazione, è punito con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda da lire 1.000.000 a 2.000.000 (2).

Il prefetto, indipendentemente dal procedimento penale, ordina la chiusura degli ambulatori o case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica ovvero delle case o pensioni per gestanti aperte o esercitate senza l’autorizzazione indicata nel presente articolo. Il prefetto può, altresì, ordinare la chiusura di quelli fra i detti istituti nei quali fossero constatate violazioni delle prescrizioni contenute nell’atto di autorizzazione od altre irregolarità. In tale caso, la durata della chiusura non può essere superiore a tre mesi. Il provvedimento del prefetto è definitivo.

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Quadro giurisprudenziale di riferimento  in tema di autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di attività soggette a vigilanza sanitaria:

Cassazione penale sez. III, 06/10/2010, n.37169:

L’autorizzazione sanitaria prevista dall’art. 193 t.u.l.s. per l’esercizio delle attività ivi indicate viene rilasciata con riferimento non solo alla idoneità dei locali e delle attrezzature, ma anche all’affidabilità dei soggetti operanti, di tal che, ove questi mutino, occorre una nuova autorizzazione ed il principio vale anche qualora l’autorizzazione sia stata rilasciata ad un persona giuridica alla quale se ne sia poi sostituita o aggiunta un’altra, nulla rilevando che risulti immutata l’identità delle persone fisiche che già operavano all’atto del rilascio della prima autorizzazione.

T.A.R. Roma, (Lazio) sez. III, 29/03/2010, n.4905:

Ai sensi dell’art. 193 t.u.l.s., è necessaria l’autorizzazione del sindaco per aprire un ambulatorio medico, con riguardo all’adeguatezza tecnico-sanitaria e all’idoneità tecnica del sanitario e del laboratorio, a nulla rilevando l’accreditamento della struttura che riguarda invece l’opportunità che l’attività medesima sia esercitata in tale regime con pagamento delle prestazioni da parte della Regione.

Cassazione penale sez. III, 18/04/2007, n.21806:

Sussiste il reato previsto dall’art. 193, r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 (Tuls) quando venga svolta una attività consistente in trattamenti di medicina estetica, con l’uso di apparecchiatura laser per la depilazione, senza la prescritta autorizzazione sanitaria, necessaria anche per strutture dotate di attrezzature minime, in cui si eserciti tuttavia attività medica con finalità speculativa da parte di operatori privati.

Cassazione penale sez. III, 04/06/2002, n.29509:

Non è punibile l’amministratore straordinario di una t.u.s.l. che abbia aperto al pubblico un ambulatorio medico senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 193 t.u.l.s. Alla richiesta autorizzazione sono, viceversa, tenuti i soggetti che svolgano attività sanitaria in forma privata.

Cassazione penale sez. III, 19/01/1996, n.2023:

Lo studio dentistico deve essere giuridicamente qualificato ambulatorio, inteso quale locale avente funzione sanitaria finalizzata alla attività non solo di diagnosi, ma anche di terapia medica che non assuma comunque la dimensione ospedaliera, e contrapposto al concetto di gabinetto o studio medico (per l’esercizio del quale non è richiesta alcuna autorizzazione) – che va inteso quale locale adibito solo all’esercizio della attività professionale del singolo medico, privo di attrezzature e senza alcuna finalità terapeutica – e, pertanto, lo stesso è assoggettato, in virtù dell’art. 193 t.u.l.s., alla previa autorizzazione del Presidente della giunta regionale.

Cassazione penale sez. III, 06/07/1995, n.10043:

Deve qualificarsi come ambulatorio, in quanto tale assoggettato, in virtù dell’art. 193 t.u.l.s. e dell’art. 3 della l.reg. Valle d’Aosta n. 70/82, alla previa autorizzazione del presidente della giunta regionale, uno studio odontoiatrico associato, a nulla rilevando la restrittiva definizione di ambulatorio contenuta in nota nella tabella allegata al d.l. 22 giugno 1991, n. 230 (tariffa delle tasse sulle concessioni regionali), avendo la nozione di ambulatorio da essa risultante finalità esclusivamente fiscale.

by Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA