La Corte di Cassazione traccia lo stato dell’arte sulle diverse fattispecie di reato che puniscono la condotta vessatoria del datore di lavoro definibile come mobbing.
Si segnala ai lettori del blog l’interessante sentenza numero 31273.2020, resa dalla V Sezione penale della Corte di Cassazione che, pronunciatasi in fase cautelare personale su una imputazione provvisoria di condotta persecutoria posta in essere in ambito lavorativo dal datore di lavoro in danno del dipendente, chiarisce il perimetro e la rilevanza penale delle condotte vessatorie rientranti nel concetto di mobbing che, come noto, non costituendo di per sé ipotesi di reato tipica, richiede, di volta in volta, di ricondurre la condotta antigiuridica dell’autore del reato in una specifica norma incriminatrice prevista dal codice penale della quale devono ricorrere gli elementi costitutivi (elemento oggettivo e soggettivo).
In particolare, la Corte di legittimità, con la sentenza in commento, si sofferma preliminarmente sull’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica tesa definire il concetto di mobbing, definito come “una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a modificare e isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.
Il Supremo Consesso precisa quindi che la condotta così definita può rientrare nel raggio applicativo delle seguenti fattispecie di reato:
- a) maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., laddove il rapporto di lavoro assuma natura para-familiare;
- b) abuso di mezzi di correzione o disciplina di cui all’art. 571 c.p., in caso di superamento da parte del datore di lavoro dei limiti posti all’esercizio dei poteri a lui riconosciuti dalla legge;
- c) atti persecutori previsto e punito dall’art. 612 bis c.p., ove ne ricorrano gli elementi costitutivi, quali la reiterazione di condotte persecutorie preordinate alla causazione di uno stato di prostrazione psicologica, come tale realizzabile in qualsiasi ambito della vita, tra cui anche quello lavorativo.
Per una migliore comprensione dell’argomento qui trattato, di seguito al commento della sentenza il lettore troverà:
(i) il testo della fattispecie incriminatrice;
(ii) gli arresti giurisprudenziali citati nella parte motiva della sentenza numero 31273.2020;
(iii) la rassegna delle più significative e recenti massime riferite alle pronunce di legittimità in materia di mobbing, oltre agli approfondimenti in materia di diritto penale del lavoro che il lettore può trovare nell’area del sito dedicata al diritto penale del lavoro.
Il reato in provvisoria contestazione e la fase cautelare di merito
Nel caso di specie all’indagato, nella qualità di amministratore delegato di una società, era provvisoriamente contestato il delitto di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., in riferimento a plurime condotte persecutorie poste in essere in danno del dipendente licenziato.
Il Tribunale del Riesame di Torino, in riforma dell’ordinanza resa dal G.i.p. in sede che non aveva accolto la richiesta di misura custodiale personale avanzata dal P.M. c- he, quindi, aveva interposto l’appello cautelare – disponeva nei confronti del prevenuto la misura cautelare personale degli arresti domiciliari.
Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto
La difesa del giudicabile proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza resa dal Tribunale della Libertà, articolando plurimi motivi di impugnazione impingenti i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari.
In particolare, il ricorrente deduceva la mancata configurazione nel caso di specie del reato di atti persecutori.
La Suprema Corte rigetta il ricorso.
Di seguito si riportano i passaggi più significativi tratti dal compendio motivazionale della pronuncia in commento:
(i) Definizione giuslavoristica di mobbing
L’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo (Ex multis Sez. L, n. 12437 del 21/05/2018) che unifica la condotta, unitariamente considerata.
Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Sez. L, n. 10992 del 09/06/2020, N. 4222 del 2016, N. 12437 del 2018, N. 26684 del 2017). In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di «mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro».
(ii) Rilevanza penale delle condotte di mobbing
In riferimento alla rilevanza penale delle condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, N. 28603 del 2013, N. 13088 del 2014, N. 24057 del 2014, N. 24642 del 2014).
Sempre valorizzando il piano della relazione – verticale – tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016, N. 10090 del 2001).
Siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela dell’integrità psico-fisica della vittima, insiste, nondimeno, sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro; e non esclude – ma, anzi, conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612-bis cod. pen., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati.
Ed invero il delitto di atti persecutori – che ha natura di reato abituale e di danno – è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019), che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Sez. 5, n. 11931 del 28/01/2020). Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.
La fattispecie incriminatrice:
Art. 612 bis c.p. – Atti persecutori
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
Le pronunce citate nella sentenza in commento:
Cassazione civile sez. lav., 09/06/2020, n.10992
Ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.
Cassazione penale sez. V, 28/01/2020, n.11931
Non costituisce violazione dell’art. 521 c.p.p. la qualificazione da parte del giudice di appello di uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p. in termini di “profondo stato di paura” piuttosto che di “perdurante e grave stato d’ansia”, trattandosi di una qualificazione che lascia inalterato il nucleo essenziale di uno degli eventi alternativi, idonei ad integrare la fattispecie incriminatrice, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.
Cassazione penale sez. V, 14/01/2019, n.7899
Il delitto previsto dell’art. 612-bis c.p., che ha natura di reato abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento.
Cassazione civile sez. lav., 21/05/2018, n.12437
È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato entrambi gli elementi, individuabili, il primo, nello svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice e, il secondo, nell’atteggiamento afflittivo del datore di lavoro, all’interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda).
Cassazione penale sez. VI, 13/02/2018, n.14754
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri).
Cassazione civile sez. lav., 10/11/2017, n.26684
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
Cassazione penale sez. VI, 28/09/2016, n.51591
In tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione).
Cassazione civile sez. lav., 03/03/2016, n.4222
La responsabilità per mobbing non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma va inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c. e ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Cassazione penale sez. VI, 11/04/2014, n.24057
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata ritenuta la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal titolare di un’impresa agricola nei confronti di alcuni dipendenti di nazionalità rumena ospitati nella struttura, e ridotti in una situazione di estremo disagio quanto al vitto, all’alloggio ed alle condizioni igieniche).
Cassazione penale sez. VI, 19/03/2014, n.24642
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale).
Cassazione penale sez. VI, 05/03/2014, n.13088
Non ogni fenomeno di mobbing – e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio – attuato nell’ambito di un ambiente lavorativo può integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (“mobbing”) si inquadrino in un rapporto tra datore di lavoro e il dipendente capace di assumere una “natura para-familiare”, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte, annullando senza rinvio la sentenza di condanna, ha escluso il reato di maltrattamenti in famiglia, apprezzando che i fenomeni incriminati si erano svolti in uno stabilimento di notevoli dimensioni ove erano presenti circa cinquanta dipendenti; secondo la Cassazione, semmai, si sarebbero potuti apprezzare gli estremi di altri reati, quali quelli di lesioni personali, di minaccia, di ingiuria e di violenza privata, eventualmente aggravati dall’abuso di relazioni d’ufficio o di prestazione di opera, peraltro ormai prescritti).
Cassazione penale sez. VI, 28/03/2013, n.28603
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p., anche nel testo modificato dalla l. n. 172 del 2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali).
Cassazione penale sez. VI, 22/01/2001, n.10090
Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale. (Fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi).
La rassegna delle più significative massime in materia di mobbing:
Cassazione penale sez. VI, 07/06/2018, n.39920
È essenziale il requisito della para-famigliarità del rapporto per configurare il reato di maltrattamento in famiglia in ambito lavorativo (nella specie, l’imputato, nella sua qualità di notaio e datore di lavoro della vittima, dipendente dello studio notarile e sua cognata era accusato del reato di maltrattamenti in famiglia in ambito lavorativo).
Cassazione penale sez. II, 06/12/2017, n.7639
Gli atti persecutori realizzati in danno del lavoratore dipendente e finalizzati alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudine di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto debole del rapporto in quello che riveste la posizione di supremazia, e come tale, destinatario di obblighi di assistenza verso il primo.
Cassazione penale sez. V, 30/05/2017, n.34836
È configurabile il reato di atti persecutori anche nei confronti di un dipendente. E se il rapporto di lavoro è pubblico, scatta la responsabilità dell’ente in solido con lo stalker per i danni subiti dalla vittima. Ad affermarlo è la Cassazione per la quale è, dunque, da considerare stalking la persecuzione professionale del dipendente da parte del datore di lavoro o di un suo superiore. Nel caso di specie, si trattava del responsabile del servizio cultura di un comune addetto alla gestione della biblioteca il quale aveva posto in essere una persecuzione professionale tradottasi in violenze morali e atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale. Per la Corte, anche se parte delle azioni persecutorie erano state messe in atto durante la pausa pranzo o al di fuori dell’orario di lavoro, l’esercizio delle funzioni pubbliche ha agevolato il danno nei confronti della persona offesa e, perciò, sussiste la responsabilità del comune.
Cassazione penale sez. VI, 28/09/2016, n.51591
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo, a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia.
Cassazione penale sez. VI, 01/06/2016, n.26766
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole dei rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (nella specie, relativa ai rapporti tra i gestori di una ricevitoria e una loro dipendente, qualificabili in termini di lavoro subordinato, non ricorreva quel nesso di supremazia -soggezione che ha esposto la parte offesa a situazioni assimilabili a quelle familiari).
Cassazione penale sez. III, 16/03/2016, n.12208
L’invio al datore di lavoro della vittima di lettera anonima contenente allusioni alla moralità della dipendente nonché foto e DVD che ritraggono la stessa nuda e nell’atto di compiere un rapporto sessuale costituisce molestia idonea a cagionare un grave e perdurante stato d’ansia nella vittima, in relazione all’ampiezza, alla durata e alla carica dispregiativa della condotta criminosa.
Cassazione penale sez. VI, 26/02/2016, n.23358
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cassazione penale sez. VI, 26/02/2016, n.23358
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para -familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.
Cassazione penale sez. VI, 15/09/2015, n.44589
Le pratiche persecutorie finalizzate all’emarginazione del lavoratore possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Non occorre, pertanto, che ricorrano le condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.
Cassazione penale sez. VI, 23/06/2015, n.40320
Il fenomeno del mobbing – e cioè di un comportamento vessatorio e discriminatorio, preordinato a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro – può integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, ma, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172, trattandosi pur sempre di delitto contro l’assistenza familiare, è necessario che le pratiche persecutorie e maltrattanti del datore di lavoro in danno del dipendente, ovvero, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto, è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal tratto della “parafamiliarità”, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità e informalità. Tale situazione ben può configurarsi anche nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti di elevata qualificazione (da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui all’articolo 572 c.p., contestato al direttore di una unità operativa di cardiochirurgia ospedaliera cui era stato addebitato di avere posto in essere iniziative discriminatorie tendenti al demansionamento di fatto di un proprio sottoposto, dirigente medico, il quale, nel tempo, era stato destinato a un’attività di consulenza in una struttura diversa e meno importante delle precedenti, era stato escluso dalla funzione di primo chirurgo reperibile a vantaggio di colleghi con minore anzianità di servizio e, soprattutto, si era visto esautorare dall’attività di primo chirurgo, con conseguente compromissione del mantenimento delle proprie capacità operatorie, dipendenti anche dalla statistica – numero e qualità – degli interventi svolti).
By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA