Sussiste il reato di bancarotta impropria se il fallimento deriva da evasione fiscale e contributiva.

La Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 633/2018 si è pronunciata in materia di bancarotta impropria in relazione alla condotta di autofinanziamento mediante la sistematica evasione fiscale e contributiva.

Il caso e l’imputazione penale.

I due imputati erano accusati di aver cagionato il fallimento, dichiarato nel 2006, di una s.r.l., della quale questi, rispettivamente, hanno ricoperto i ruoli di presidente del consiglio di amministrazione dal 2000 al 2001, l’uno, e di consigliere di amministrazione nel medesimo periodo di tempo, di presidente del consiglio di amministrazione dal 2001 al 2003 e di amministratore unico fino 2004, l’altro. I due imputati avrebbero omesso, sistematicamente, sin dal 1998, il pagamento di tributi e oneri previdenziali, facendo maturare un debito di circa tre milioni di euro per omesso versamento di imposte dirette, IVA e contributi di legge.

Per tali motivi la procura di Milano ha formulato imputazione e chiesto il rinvio a giudizio per i delitti di bancarotta impropria e bancarotta documentale.

Lo svolgimento del processo

In primo grado il Gup del Tribunale di Milano giudicando con rito abbreviato ha condannato i due imputati per i reati loro ascritti a titolo di concorso alla pena ritenuta di giustizia.

La Corte di appello territoriale, in parziale riforma della sentenza resa dal Giudice dell’udienza preliminare, ha assolto questi dall’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale e, per l’effetto, rideterminato la pena loro inflitta in anni due, mesi otto di reclusione, revocando la pena accessoria. Confermava nel resto la sentenza impugnata.

Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso per cassazione. 

La decisione della Cassazione e il punto di diritto

La Cassazione respinge il ricorso dichiarandone l’inammissibilità dei motivi.

In punto di diritto la Corte, disattendendo la doglianza della difesa tesa a riqualificare i fatti in contestazione come bancarotta semplice impropria societaria (art. 224, comma 2, legge. fall) ha statuito che: “un costante orientamento di questa Corte, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall. possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016 – dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri, Rv. 259997).

In particolare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. (In applicazione del principio, è stata ritenuta corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 261684).

Il fallimento determinato da operazioni dolose configura un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale; l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonchè dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247315; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri, Rv. 265510)”.

Dunque i Giudici di legittimità in continuità con un orientamento già consolidato dal quale non hanno ritenuto di doversi discostare con la sentenza in commento, confermano il principio secondoil quale il fallimento della società cagionato da dolose condotte sistematiche di evasione di tributi ed oneri previdenziali, comporta la responsabilità penale per reati di bancarotta impropria, indipendentemente dal fatto che il fatto storico – fallimento – sia voluto e rappresentato dal soggetto attivo, essendo sufficiente, per integrare l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall, la consapevolezza e volontà delle operazioni illecite alle quali segue il dissesto dell’azienda evento naturalistico astrattamente prevedibile come conseguenza delle condotte antidoverose.

Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di bancarotta impropria ed evasione fiscale:

Cassazione penale, sez. V, 08/11/2016, n. 15281.

In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall. possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità.

Cassazione penale, sez. V, 01/10/2015, n. 45672.

In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa.

Cassazione penale, sez. III, 29/10/2014, n. 5921.

In tema di omesso versamento di i.v.a., non risponde del reato di cui all’art. 10 ter d.lg. 10 marzo 2000 n. 74, per difetto dell’elemento soggettivo, il liquidatore di società che, a fronte di istanza di fallimento già presentata anteriormente alla scadenza del termine per il pagamento dell’imposta, ometta di adempiere l’obbligazione tributaria nel legittimo convincimento, erroneo quanto alla circostanza fattuale del non ancora intervenuto fallimento, che il versamento violi la regola della “par condicio creditorum” di cui agli art. 51 e 52 l.fall. ed integri, a determinate condizioni, il reato di bancarotta preferenziale.

Cassazione penale, sez. V, 20/05/2014, n. 40998.

Ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria prevista dall’art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 c.p., né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella del dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé reversibile.

Cassazione penale, sez. V, 29/11/2013, n. 12426.

In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall., possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa individuabile e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva considerato qualificabile come operazione dolosa a norma dell’art. 223, comma 2, n. 2 l. fall., il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità).

Cassazione penale, sez. V, 16/10/2013, n. 8413.

In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 c.p., né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto

Cassazione penale, sez. III, 14/06/2011, n. 29616.

Risponde del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 d.l.12 settembre 1983 n. 463, conv. con modificazioni in l. 11 novembre 1983 n. 638) il legale rappresentante di una società dichiarata fallita in quanto obbligato, ove non dichiarato fallito personalmente, al pagamento delle ritenute con le personali risorse finanziarie. (Nella specie, la Corte ha ritenuto infondata l’eccezione dell’imputato secondo cui l’omesso versamento delle ritenute all’Istituto previdenziale, a seguito della dichiarazione di fallimento, sarebbe stato imposto dalla necessità di evitare il rischio di vedersi contestato il delitto di bancarotta preferenziale per aver privilegiato un creditore).

Cassazione penale, sez. V, 18/02/2010, n. 17690.

L’art. 223 comma 2 n. 2 l. fall., che ascrive la responsabilità per aver cagionato il fallimento per effetto di “operazioni dolose”, concreta una figura prescrittiva piuttosto labile nella sua portata definitoria ed anche nella previsione della natura “dolosa” dell’azione (categoria inconsueta per il diritto penale che, ai sensi dell’art. 42 comma 2 c.p., suppone connotati da dolo tutti i comportamenti per cui il legislatore non abbia espresso un tratto esplicito di colpa o di preterintenzione), massimamente, per la peculiare previsione del momento soggettivo che fa dipendere la responsabilità penale non già dalla volontà dell’evento naturalistico (il fallimento della società), ipotesi propria dalla causazione del dissesto (figura limitrofa ma ben diversa dall’attuale), bensì dall’azione illecita “per effetto” della quale si cagiona il fallimento. Una connotazione difforme – è bene osservare – da quella sottesa alla categoria giurisprudenziale del c.d. “dolo eventuale”.

I più recenti arresti giurisprudenziali in tema di bancarotta impropria.

Cassazione penale, sez. V, 14/09/2017, n. 50081.

La presentazione per lo sconto presso diversi istituti bancari delle medesime fatture concreta quelle operazioni dolose che inevitabilmente, aumentando il passivo (ottenendo più anticipazioni a fronte del medesimo ed unico credito), conducono all’aggravamento dello stato di dissesto e, quindi, al fallimento. Una simile condotta integra gli elementi costitutivi della bancarotta impropria e non configura la diversa ipotesi del ricorso abusivo al credito, posto che tale fattispecie si concreta nel caso in cui si ottengano finanziamenti dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza, in assenza, quindi, degli ulteriori elementi che caratterizzano il delitto di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, seconda ipotesi, e cioè il cagionare il fallimento attraverso operazioni dolose.

Cassazione penale, sez. V, 09/05/2017, n. 29885.

Integra il reato di cui all’articolo 223, comma 2, numero 1, della legge fallimentare (Rd 16 marzo 1942 n. 267) la condotta di chiunque cagioni, o concorra a cagionare, commettendo i delitti societari indicati (nella specie, quello di cui all’articolo 2621 del codice civile), il dissesto della società, così sanzionando la condotta sia di chi il dissesto – da intendersi come lo squilibrio economico che conduce la società al fallimento – l’abbia interamente cagionato, sia di chi ne abbia causato una parte (l’abbia aggravato), posto che il dissesto, nei suoi termini economici, non costituisce un dato di fatto immodificabile e può pertanto essere reso ancora più grave. Per l’effetto, il reato è correttamente ravvisato nella condotta di chi abbia lasciato permanere nel bilancio della società poi fallita un credito ormai inesigibile, senza operare la dovuta svalutazione almeno del 90%, come impostogli da criteri tecnici generalmente accettati, dai quali ci si può discostare solo fornendo adeguata informazione e giustificazione (sezioni Unite, 31 marzo 2016, Passarelli), avendo consentito, con tale comportamento, alla società di proseguire l’attività, senza prendere atto, invece, che il patrimonio netto era divenuto negativo e che quindi era necessario o provvedere alla sua ricapitalizzazione o alla sua liquidazione (o alla richiesta di fallimento).

Cassazione penale, sez. V, 24/03/2017, n. 17819.

La condotta consistente nella vendita sottocosto di un cespite conferito nel capitale sociale, con acquisizione di liquidità per la società e contestuale vantaggio (anche solo indiretto) dell’amministratore di questa, può integrare infedeltà patrimoniale, ex art. 2634 c.c., ma perché tale condotta venga qualificata come bancarotta fraudolenta impropria, ex art. 223, comma 2, n. 1) l. fall., deve aver cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società.