Diffamazione aggravata commessa via Facebook dal militare che offende la reputazione dei superiori.

Si segnala ai lettori del blog la sentenza di legittimità n.9385/2019, depositata il 04.03.2019, che affronta il tema di diffamazione commessa tramite l’utilizzo di social network nel caso di specie ad opera di un militare.

L’imputazione ed i giudizi di merito davanti alla magistratura militare

Il Tribunale Militare di Napoli condannava un appuntato scelto dei Carabinieri alla pena di mesi due di reclusione militare per diffamazione aggravata consistita nell’aver avere offeso la reputazione dei suoi superiori (nello specifico, il comandante della Compagnia ed il comandante del NORM), pubblicando sul suo profilo Facebook frasi che indicavano i predetti superiori come «due bambini» e come «psicopatici in divisa». Rilevava il Tribunale Militare che il reato contestato era aggravato ai sensi del comma 2 dell’art. 227 del codice penale militare di pace, in quanto vi era stato l’uso della pubblicità con il commento su di una bacheca di Facebook e ciò rendeva il reato procedibile d’ufficio; inoltre non poteva esservi dubbio sull’identificazione dell’utilizzatore dell’account utilizzato per la condotta, giacché era stato registrato da una persona che aveva indicato quale nome e cognome quello dell’imputato, aveva dichiarato di lavorare nei Carabinieri e nel profilo aveva palesato fotografie in cui il medesimo era riconoscibile.

La Corte Militare di Appello confermava la condanna di primo grado.

Contro la sentenza della Corte militare distrettuale interponeva ricorso l’interessato per mezzo del proprio difensore.

La decisione della cassazione ed il principio di diritto

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione risultando la sentenza di appello immune dai vizi denunciati, per le ragioni che di seguito, per quanto ivi di interesse, vengono riportate.

“… già la sentenza di primo grado aveva precisato che il reato contestato e ritenuto era aggravato ai sensi del comma 2 dell’art. 227 del codice penale militare di pace, in quanto vi era stato l’uso della pubblicità con il commento su di una bacheca di Facebook, e ciò rendeva il reato procedibile d’ufficio: questa affermazione non è stata contestata dal ricorrente in appello, per cui il relativo motivo di doglianza non è accoglibile. Peraltro, si trattava di una conclusione corretta ed è appena il caso di rammentare che, ai sensi dell’art. 227, comma 2, del codice penale militare di pace, il reato di diffamazione è aggravato «se l’offesa è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità», come appunto avvenuto nel caso di specie (si ribadisce che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone: Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015, Rv. 264007).

(…) la sentenza impugnata evidenzia che, nel corso del dibattimento, erano state acquisite dichiarazioni testimoniali concordi ed univoche sulle immagini visibili sia su computer che su telefono cellulare consultando il citato profilo pubblico di Facebook; venivano riportate dette dichiarazioni e indicati i testimoni che avevano visto e letto le frasi offensive. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale aveva concluso circa l’irrilevanza della mancata utilizzabilità degli screenshots, poiché le numerose testimonianze avevano fatto raggiungere l’evidenza della diffamazione: infatti, l’oggetto della testimonianza può essere una comunicazione o una dichiarazione di contenuto narrativo, e le comunicazioni rilevanti possono essere non soltanto verbali, ma altresì espresse in forma scritta o con qualsiasi altro mezzo. Quanto, infine, alla incertezza sull’utente, le indicazioni ricavabili dalle due sentenze di primo e secondo grado, hanno correttamente eliminato le incertezze, facendo riferimento al nome con il quale il ricorrente era noto ai colleghi ed alle fotografie nell’account che lo ritraevano in divisa, in una autovettura di servizio nonché insieme alla moglie. 

(…) la Corte territoriale sottolinea che nelle dichiarazioni del ricorrente non vi era mai stata una indicazione precisa dei fatti oggetto dell’asserita mera critica e nel testo contestato non vi era alcun cenno al mancato trasferimento in altra sede di servizio. Al contrario, nel post vi erano soltanto frasi offensive, che indicavano i suoi comandanti come «bambini» e come «psicopatici in divisa»: la caratura offensiva delle espressioni era ritenuta di piena evidenza e va rammentato che, in tema di diffamazione, la sussistenza dell’esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica, a condizione che l’offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia “contenuta” (requisito della “continenza”) nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto”.

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Riferimenti normativi

Art. 227 cod. pen. mil. di pace. Diffamazione.

Il militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni.
Se l’offesa è recata a un corpo militare, ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, le pene sono aumentate.

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Quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di diffamazione a mezzo social network:

Cassazione penale, sez. V , 12/07/2018 , n. 42630

Se il social network non collabora nell’identificazione dell’autore del reato, le indagini devono essere approfondite per individuare chi ha scritto il post. Ad affermarlo è la Cassazione che ha imposto ai giudici di merito di motivare adeguatamente le ragioni dell’archiviazione a carico del presunto autore della diffamazione on line. Il caso riguardava alcuni post offensivi pubblicati su Facebook da un utente la cui identità era rimasta incerta, a seguito del rifiuto dei gestori di Facebook di fornire l’indirizzo IP dell’autore del messaggio. Il decreto di archiviazione disposto dal Gip veniva però impugnato in Cassazione dalla persona offesa che lamentava l’assoluta mancanza di indagini suppletive e di analisi degli ulteriori indizi forniti dalla persona offesa. Da qui la pronuncia della Suprema corte che ha imposto ai giudici di merito di andare oltre la mancata collaborazione dei social network e di approfondire tutti gli elementi utili alle indagini.

Cassazione penale, sez. V, 03/05/2018 , n. 40083

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’ art. 595, comma terzo, cod. pen. , poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.

Cassazione penale, sez. V, 19/02/2018 , n. 16751

In tema di diffamazione, l’amministratore di un sito internet non è responsabile ai sensi dell’ art. 57 c.p. , in quanto tale norma è applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook). (In motivazione, la Corte ha precisato che il mero ruolo di amministratore di un forum di discussione non determina il concorso nel reato conseguente ai messaggi ad altri materialmente riferibili, in assenza di elementi che denotino la compartecipazione dell’amministrazione all’attività diffamatoria).

Cassazione penale, sez. V, 04/12/2017, n. 5175.

La legge n. 48 del 2008 (Ratifica della convenzione di Budapest sulla criminalità informatica) non introduce alcun requisito di prova legale, limitandosi a richiedere l’adozione di misure tecniche e di procedure idonee a garantire la conservazione dei dati informatici originali e la conformità ed immodificabilità delle copie estratte per evitare il rischio di alterazioni, senza tuttavia imporre procedure tipizzate. Ne consegue che il giudice potrà valutarle secondo il proprio libero convincimento (fattispecie relativa alla pubblicazione di un post ingiurioso su Facebook).

Cassazione penale, sez., 19/10/2017, n. 101.

Si configura il reato di diffamazione a mezzo di strumenti telematici se i commenti diffamatori, pubblicati tramite post sul social network Facebook, possono, pur in assenza dell’indicazione di nomi, riferirsi oggettivamente ad una specifica persona, anche se tali commenti siano di fatto indirizzati verso i suoi familiari. 

Cassazione penale, sez. V, 29/05/2017, n. 39763.

In tema di diffamazione, l’individuazione del destinatario dell’offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell’offesa, sulla base di un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell’offesa (esclusa, nella specie, la configurabilità del reato per la condotta dell’imputato, che, in un post su Facebook, aveva espresso il suo sdegno per le modalità con cui erano state celebrate le esequie di un suo caro parente).

Cassazione penale, sez. V, 23/01/2017, n. 8482.

La pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook con l’attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all’art. 595, commi 2 e 3,c.p. ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa giustapposta dal Legislatore nel medesimo comma. Deve, infatti, tenersi distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall’ambito – più vasto ed eterogeneo – della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo. In caso di diffamazione mediante l’utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. n. 47 del 1948, ed in particolare, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 13.

Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.

È del tribunale penale la competenza a giudicare la condotta consistente nella diffusione di messaggi minatori e offensivi attraverso il social network Facebook, configurando i reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 c.p.

Cassazione penale, sez. I, 02/12/2016, n. 50.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma c.p., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.

Cassazione penale, sez. V, 14/11/2016, n. 4873.

Ove taluno abbia pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con cui offendeva la reputazione di una persona, attribuendole un fatto determinato, sono applicabili le circostanze aggravanti dell’attribuzione di un fatto determinato e dell’offesa recata con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ma non quella operante nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

Cassazione penale, sez. V, 07/10/2016, n. 2723.

La divulgazione di un messaggio di contenuto offensivo tramite social network ha indubbiamente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, proprio per la natura intrinseca dello strumento utilizzato, ed è dunque idonea ad integrare il reato della diffamazione aggravata (fattispecie relativa all’inserimento di un messaggio offensivo sul profilo Facebook della persona offesa).

Cassazione penale, sez. V, 13/07/2015, n. 8328.

La condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, sicché, se tale commento ha carattere offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.

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