Risponde di lesioni colpose il medico che non approfondisce la storia clinica della paziente e somministra un farmaco che le provoca uno shock anafilattico.

Si segnala ai lettori del blog la recente sentenza n. 42000/2019, con la quale la Suprema Corte ha confermato  – limitatamente agli effetti civili – la penale responsabilità dell’imputata a cui veniva contestato di aver cagionato ad una paziente un shock anafilattico dovuto al farmaco somministrato.

La lettura della allegata sentenza affronta il tema del nesso di causalità (ritenuto sussistente)  fra condotta colposa e l’evento lesivo, giudicato prevedibile ed evitabile con una maggiore diligenza professionale.

Il caso clinico e il doppio grado di giudizio.

La Corte di appello di Roma, riformando integralmente la sentenza di condanna di primo grado, assolveva le tre imputate ritenute a vario titolo responsabili di lesioni colpose cagionate alla paziente.

Secondo l’accusa i due sanitari, operanti  in diverse strutture ospedaliere,  cagionavano alla paziente ricoverata presso le rispettive strutture reazioni allergiche (nella seconda struttura lo schock anafilattico) conseguente alla somministrazione di diversi farmaci.

Veniva tratta a giudizio anche l’infermiera che nel provvedere all’attività di cura ed igiene personale della paziente, con una manovra maldestra cagionava una lussazione dell’anca.

Il principio di diritto e il giudizio di legittimità.

Il Supremo Collegio ha dichiarato parzialmente fondato il ricorso promosso dalla parte civile  accogliendolo limitatamente alla posizione del sanitario che aveva cagionato la grave reazione allergica ed a quella dell’infermiera.

Di seguito si riportano i passaggi di maggiore interesse per gli operatori di diritto che si occupano della colpa medica.

(i) L’assenza di prova sul nesso causale sull’operato del primo sanitario.

Quanto ad omissis , relativamente all’episodio occorso il 06/07/2012, l’impugnata sentenza ha, in premessa del suo argomentare, richiamato: la sentenza di primo grado, laddove questa riconosceva che l’assunzione dell’antibiotico Augmentin non ha comportato uno shock anafilattico né una reazione allergica, avuto riguardo alla sintomatologia presentata dalla persona offesa (debolezza, difficoltà nell’articolare la parola, rallentamento psichico); le affermazioni dei consulenti tecnici del Pubblico ministero, per i quali l’assunzione del farmaco “non ha compromesso i parametri vitali della paziente che è stata tempestivamente ed idoneamente trattata e quindi ha portato ad uno stato di malattia di qualche ora e nessun postumo di rilevanza”.

La Corte di appello ha poi sostenuto che, da un’attenta analisi delle risultanze istruttorie, emergono incertezze e dubbi in merito: 1) all’effettiva allergia della paziente alla penicillina, riferita solo dalla figlia e non accertata attraverso specifici esami di laboratorio; 2) all’effettiva annotazione dell’intolleranza alla penicillina nella cartella clinica al momento in cui la omissis ebbe a visitare la paziente, ove si consideri che, nel diario clinico, tale annotazione era riportata nello spazio della temperatura e non in quello di “osservazioni e terapia” (quasi si trattasse di “un dato acquisito tardivamente”, secondo il consulente della difesa richiamato dalla sentenza di appello), ovvero non era riportata nel foglio unico di terapia, tanto più necessario in un caso, come quello di specie, in cui la paziente era stata trasferita ad altro reparto.

Rileva, poi, la Corte di appello che né il medico di reparto né il personale infermieristico, preposto alla somministrazione del farmaco, si sono resi conto di tale annotazione, la cui origine resta pertanto non accertata. Ma, pur avendoli richiamati, la sentenza impugnata non ha fondato le sue conclusioni sugli anzidetti elementi, quanto sul fatto, dirimente, che è risultato indimostrato il rapporto causale tra l’assunzione del farmaco Augmentin e i sintomi presentati dalla paziente.”

“Questa, infatti, palesava una sintomatologia riconducibile ad una severa iposodiemia.

Affezione che non rappresenta unicamente una ipotesi del consulente della difesa, prof. omissis, citato al riguardo dalla sentenza, ma che é invece stata oggettivamente riscontrata, atteso che venne adottata una diversa terapia (flebo di sodio), idonea a fronteggiare il pericolo avvertito ed esplicitato dai sanitari (corna sodico), così come altresì riferito dalla figlia della paziente.

La Corte del merito ricorda, sul punto, che anche il consulente tecnico nominato dal Pubblico ministero non aveva escluso che tra i sintomi dell’iposodiemia vi fossero anche quelli mostrati dalla paziente dopo l’assunzione del farmaco.

In conclusione, con riguardo all’imputata omissis, la motivazione della sentenza di appello ha correttamente evidenziato l’assenza di accertamento del nesso causale. Invero, il giudizio esplicativo della specifica vicenda non è approdato ad una ricostruzione dei fatti sufficientemente precisa in quanto basata su fatti accertati. Né detto nesso causale può inferirsi sulla base di una mera coincidenza temporale. In termini estremamente riassuntivi può dirsi che all’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità si perviene con un procedimento di eliminazione mentale: un’azione è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento venga meno o si verifichi con modalità diverse. Essa costituisce una condizione cosiddetta necessaria (contrapposta alle condizioni cosiddette sufficienti) per il verificarsi dell’evento. Questo accertamento non vi stato nel caso di specie, di talché può concludersi nel senso che la motivazione con riguardo ad omissis si appalesa congrua e adeguata e che, pertanto, rispetto a costei, il ricorso della parte civile non merita accoglimento.”

(ii) Il vizio motivazionale della sentenza impugnata e la responsabilità del sanitario che non prescrive il test di tollerabilità.

Quanto alla omissis, la sentenza impugnata presenta profili di contraddittorietà e di insufficienza della motivazione.

Il capo di imputazione ascrive alla dottoressa omissis la colpa di «aver prescritto il farmaco “Targosid” senza effettuare un preventivo test di tollerabilità, avendo la paziente già precedentemente evidenziato reazioni allergiche».

Relativamente all’episodio del 28/07/2012, la sentenza impugnata, dopo aver affermato che è dimostrato che l’assunzione del farmaco Targosid provocò nella paziente uno shock anafilattico, sostiene, sulla scorta delle valutazioni dei consulenti tecnici del Pubblico ministero, che nessun profilo di colpa è ascrivibile alla omissis, la quale nella circostanza lo prescrisse, perché: 1) a fronte di una diagnosi di pleuro pericardite, con febbre e leucocitosi, era necessario procedere ad una terapia antibiotica; 2), a seguito dell’intolleranza in precedenza dimostrata dopo l’assunzione dell’Augmentin, veniva scelto un altro antibiotico, il Targosid, utilizzato proprio per i soggetti allergici alla penicillina; 3) rappresenta un fatto assolutamente eccezionale che venga effettuato un test di tolleranza ad un antibiotico; 4) l’evento, verificatosi dopo l’assunzione del Targosid era imprevedibile e per nulla collegato a quello che era accaduto dopo la somministrazione della penicillina. Fatte queste premesse, la Corte di appello capitolina reputa del tutto insussistente il ricordato profilo di colpa individuato nell’imputazione, stante che, nel caso di specie, non era necessario effettuare alcun test di tollerabilità, avendo la paziente già in precedenza assunto il Targosid sia presso l’ospedale omissis sia il giorno prima senza che insorgesse alcun problema di intolleranza.”

“Quanto agli ulteriori profili di colpa individuati dal Tribunale – aver cambiato la precedente terapia (Merrem + Tavanic) e quello di aver prescritto la Colistina che, associata al Targosid, avrebbe comportato lo shock anafilattico – la sentenza di appello, oltre a rilevarne la diversità rispetto al profilo di colpa menzionato nel capo di imputazione, afferma, richiamate le osservazioni dei consulenti, che il rischio, derivante dall’assunzione della Colistina associata al Targosid, indicato nei foglietti illustrativi di detti farmaci, ha una scarsa rilevanza scientifica (in quanto predisposti dalle aziende farmaceutiche a scopo principalmente cautelativo) e che, comunque, in esse non si fa riferimento a reazioni allergiche ma solo a “potenziali effetti collaterali”. Conclude, infine, l’impugnata sentenza affermando che la reazione sviluppata dalla paziente a questi farmaci era imprevedibile, avendo ella assunto il Torgasid in precedenti circostanze senza alcuna conseguenza e che, nel caso di specie, non era necessario effettuare alcun test di tolleranza al farmaco, in quanto il Torgasid appartiene ad una “famiglia” di antibiotici completamente diversa dalla penicillina.

“Orbene, le osservazioni della Corte di merito appaiono illogiche e carenti laddove, nell’escludere la responsabilità dell’imputata, omettono di considerare che il processo terapeutico parte da un’attività di anamnesi che comprende anche la conoscenza della storia clinica del paziente e, quindi, le precedenti terapie e ricoveri a cui è stato sottoposto.

La motivazione si rivela poi insufficiente anche perché avulsa da qualsiasi confronto con le relative argomentazioni della sentenza di primo grado laddove “liquida” in maniera sommaria l’ulteriore profilo di colpa dell’assunzione della Colistina in associazione al Targosid, che lungi dal qualificarsi come fatto diverso rispetto a quello di cui all’imputazione rappresenta una più precisa connotazione del medesimo fatto.”

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Art. 590 cod. pen. lesioni personali colpose:

Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro.

Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 123 euro a 619 euro; se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da 309 euro a 1.239 euro.

Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni.

Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena per lesioni gravi e’ della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per lesioni gravissime e’ della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.

Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.

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Quadro giurisprudenziale sulla relazione eziologica tra condotta e evento lesivo valutata in base a un criterio di prevedibilità oggettiva:

Cassazione penale sez. IV, 15/03/2019, n.26568:

In tema di responsabilità medica, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l’analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario onde effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio. (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di assoluzione dei medici cui era stato addebitato un ritardo nella diagnosi di un infarto intestinale, non essendosi accertato che il tempestivo espletamento dell’esame radiologico omesso avrebbe comunque permesso di evitare l’evento mortale).

Corte appello Firenze sez. II, 21/09/2018, n.2134:

In tema di responsabilità medica, il giudice, verificata l’omissione di una condotta prescritta dal protocollo operatorio chirurgico, può ritenere la sussistenza della relazione eziologica in base a un criterio di prevedibilità oggettiva (desumibile da regole statistiche o leggi scientifiche), verificando se il comportamento omesso era o meno idoneo ad impedire l’evento dannoso.

Cassazione penale sez. IV, 11/05/2016, n.26491:

Nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva affermato la sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva dell’anestesista, consistita nel mancato monitoraggio dei tracciati ECG della paziente nel corso di un intervento chirurgico e nel non tempestivo rilevamento delle complicanze cardiache insorte per asistolia, ed i gravi danni cerebrali procurati alla stessa in conseguenza del ritardo con cui era stato eseguito il massaggio cardiaco).

Cassazione penale sez. IV, 12/05/2015, n.22835:

Qualora il nesso di causalità sia stato accertato in relazione ad una legge scientifica, come nel caso concreto in cui l’insorgenza della dermatite è stata indicata come reazione allergica ad alcuni componenti della crema abbronzante fornita dall’estetista, subentra l’obbligo del giudice di accertare, altresì, la causalità della colpa. Si deve, infatti, rimarcare che la legge di copertura spiega il fenomeno causale ma può non essere di per sé idonea a fondare l’accertamento della causalità della colpa, che richiede una valutazione quasi esclusivamente normativa, consistente nell’accertamento della violazione della regola cautelare, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento e della concretizzazione del rischio.

Cassazione penale sez. IV, 12/05/2015, n.22835:

Colui che ha la qualifica professionale di estetista – che quindi gestisce apparecchi elettromeccanici per uso estetico ed utilizza prodotti cosmetici – è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell’art. 40, secondo comma, c.p., a tutela della incolumità di coloro che si sottopongono al trattamento estetico, sia in forza del principio del “neminem laedere”, sia nella sua qualità di custode delle stesse attrezzature (come tale civilmente responsabile, per il disposto dell’art. 2051 c.c. dei danni provocati dalla cosa, fuori dall’ipotesi del caso fortuito), sia, infine, quando l’uso delle attrezzature e dei cosmetici dia luogo ad una attività da qualificarsi pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c. Ne discende che l’omessa adozione di accorgimenti e cautele idonei al suddetto scopo, in presenza dei quali un evento lesivo non si sarebbe verificato od avrebbe cagionato un pregiudizio meno grave per l’incolumità fisica dell’utente, costituisce violazione di un obbligo di protezione gravante su tale soggetto. Posto che l’attività estetica può rivelarsi attività pericolosa, in ragione dei rischi per l’integrità fisica in cui può incorrere chi vi si sottopone, deve in altre parole affermarsi che la posizione di garanzia di cui il titolare o responsabile dell’attività è investito implichi la sicura imposizione di porre in atto quanto è possibile per impedire il verificarsi di eventi lesivi (esclusa, nella specie, la responsabilità di un’estetista per la dermatite allergica da contatto che aveva colpito una cliente durante una seduta in solarium, per l’azione di una crema idratante di cui erano state ignorate le potenzialità invasive degli eccipienti utilizzati, atteso che non era stato accertato che l’avvertimento della potenziale pericolosità delle creme idratanti utilizzate avrebbe potuto evitare l’evento, per la mancata prova che la persona offesa fosse conoscenza del proprio stato).

Cassazione penale sez. IV, 04/11/2014, n.49707:

L’accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi deve essere svolto in via ipotetica secondo la regola di giudizio della ‘ragionevole, umana certezza’ che impone di verificare, sulla base di coefficienti probabilistici e delle contingenze del caso concreto, se l’adozione dei comportamenti doverosi, omessi dall’agente, sarebbe valsa ad impedire l’evento (esclusa, nella specie, la responsabilità di un medico in servizio presso una clinica privata, il quale, a detta dell’accusa, non aveva assunto all’atto del ricovero di un paziente, deceduto poi per aneurisma, e nelle ore immediatamente precedenti il peggioramento delle condizioni della paziente, alcuna iniziativa utile e opportuna ad impedire o ridurre il rischio di verificazione dell’evento morte, il quale si era determinato due giorni dopo, presso altra struttura dove, nel frattempo, il paziente era stato trasferito).

Cassazione penale sez. IV, 04/10/2012, n.43459:

In tema di responsabilità medica, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l’analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha censurato la decisione con cui il giudice di appello ha affermato, in ordine al reato di lesioni personali gravi, la responsabilità dei medici – per non aver rimosso, nel corso di un intervento chirurgico, una garza dall’addome del paziente – omettendo di esaminare le doglianze degli appellanti relative all’assenza di dette garze presso la struttura sanitaria in cui venne eseguito l’intervento, alle specifiche patologie del paziente ed all’eventualità che le stesse avessero richiesto esami strumentali endoscopici cui ricollegare la presenza della garza).

by Claudio Ramelli @Riproduzione Riservata