Lesioni colpose aggravate per il chirurgo estetico che interviene tardivamente e protrae il dismorfismo del volto della paziente

Si segnala ai lettori del sito la sentenza numero 8171.2022, resa dalla quarta sezione penale della Suprema corte che, pronunciatasi in ordine ad una imputazione di lesioni  colpose aggravate ascritte a due chirurghi estetici, ha annullato la sentenza della Corte di appello che aveva assolto i sanitari dall’imputazione di cui agli artt. 590 e 583 cod. pen. per la quale avevano riportato la condanna in primo grado.

Invero, secondo la Corte di legittimità,  la decisione assunta dal Collegio di appello, secondo il quale la tardiva esecuzione dell’intervento necessario alla risoluzione dell’inestetismo del volto della paziente non configurava il reato colposo di evento contestato, non è conforme alla corretta interpretazione della norma incriminatrice considerato che l’intempestiva azione dei chirurghi, pur volendo considerare corretta la scelta e l’esecuzione dell’operazione, secondo le acquisizioni dibattimentali aveva, comunque, determinato un prolungamento della malattia dovuto a negligenza, fatto questo rientrante nel perimetro punitivo della norma incriminatrice.  

 

L’imputazione ed il  doppio grado di merito.

Le imputate, in qualità di medici chirurghi, specialisti in chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica, erano state chiamate a rispondere del reato previsto e punito dagli artt. 590 e 583 cod. pen.,  per  avere cagionato per colpa  alla persona offesa lesioni personali consistite in un dismorfismo del volto con esito cicatriziale sulla guancia sinistra ed un lieve lagoftalmo bilaterale, da cui derivava una malattia di durata superiore a quaranta giorni.

In particolare ad una delle imputate veniva contestato di aver eseguito ripetute iniezioni filler che determinavano un rigonfiamento ed indurimento dei tessuti molli del viso della paziente omettendo poi di procedere ad un tempestivo intervento di revisione delle zone zigomatiche, protraendo così per circa un anno, il periodo di invalidità transitoria dell’assistita.

Intervento che il medesimo specialista  eseguiva successivamente, in qualità di primo operatore, con l’ausilio di altra collega, che interveniva quale secondo operatore, mediante una erronea procedura chirurgica che procurava così una lesione delle terminazioni nervose con conseguente compromissione dei rami sensitivi della guancia e del perilabio, con successiva infezione alla  guancia.

Il giudice di primo grado affermava la penale responsabilità per  alcuna delle condotte contestate alle imputate.

La Corte di appello di Milano, in riforma integrale della sentenza impugnata dalle imputate, le assolveva da agni addebito.

Il ricorso per cassazione, il giudizio di legittimità e il principio di diritto.

Contro la sentenza resa dalla Corte territoriale interponevano ricorso per cassazione il Procuratore generale e la persona offesa  – costituita parte civile, denunciando vizio di legge e di motivazione.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso ed annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Di seguito si riportano i passaggi estratti dalla trama argomentativa della sentenza di interesse per il presente commento:

Ciò detto, deve osservarsi come la Corte di appello di Milano abbia fondato la riforma della decisione di primo grado su assunti apodittici che non si confrontano con la sentenza di primo grado e che si fondano su presupposti fattuali e giuridici errati.

Premettendo che il capo di imputazione descrive la malattia (l’anzidetto dismorfismo del volto) come conseguente alla complicanza insorta all’esito dell’intervento chirurgico, essa afferma che «non vi è nesso di causalità tra il contestato ritardo nella risoluzione della problematica insorta nel marzo 2014 (indurimento facciale) e la malattia descritta», tanto che lo stesso capo di imputazione «si limita a porre in correlazione eziologica con il contestato ritardo esclusivamente una protrazione del periodo di invalidità transitoria dell’assistita».

Ma è proprio la “protrazione del periodo di invalidità provvisoria”, ossia la protrazione di uno stato di malattia a cui si sarebbe potuto e dovuto tempestivamente porre rimedio, l’evento causato dalla condotta rimproverata alla [omissis] con riguardo alla prima fase.

Si appalesa, conseguentemente, del tutto illogica la sentenza impugnata laddove sostiene che le “spremiture”, per quanto inutili, non abbiano aggravato la situazione e che la stessa attesa di circa un anno prima di intervenire non abbia certamente causato nessun aggravamento delle condizioni della paziente.

La protrazione di uno stato di malattia costituisce indubitabilmente un aggravamento delle condizioni di vita della persona, in esse dovendosi anche ricomprendere gli aspetti psicologici e quelli correlati alla vita di relazione sociale.

Il nesso causale, dunque, investe qui il rapporto tra il ritardo, configurato nei termini più sopra descritti, nell’espletare l’intervento chirurgico dovuto e la protrazione della malattia (granulomi da filler) che poi esiterà, stante anche la successiva complicanza nel dismorfismo del volto con esito cicatriziale sulla guancia sinistra e lieve lagoftalmo bilaterale.

Del resto, è la stessa sentenza impugnata a richiamare le considerazioni sul punto del consulente tecnico del pubblico ministero, dottor [omissis], secondo cui l’intervento chirurgico più precoce, se anche non avesse migliorato significativamente il quadro clinico “… sicuramente avrebbe ridotto di un anno il periodo di invalidità provvisoria”.

È quindi del tutto fuorviante ed errata la ricostruzione, operata dalla Corte territoriale, del nesso causale di questa prima fase della vicenda.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISER VATA