Il profitto diretto del reato di bancarotta deve ritenersi confluito nel patrimonio della società fallita e non su quello personale del suo legale rappresentante.

Segnalo la sentenza numero 1917/2023 depositata il 18/01/2023, resa dalla Corte di Cassazione – sezione seconda penale, che si è pronunciata sul tema della qualificazione del profitto del reato – da qualificare come diretto – nella fattispecie scrutinata oggetto di successiva condotta di riciclaggio.  

Con la sentenza annotata, la Suprema Corte, ha ritenuto di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale del tutto prevalente secondo il quale, nell’ipotesi in cui il reato fallimentare risulta commesso dal legale rappresentante della società nell’interesse della persona giuridica, il profitto diretto del reato deve considerarsi pervenuto nel patrimonio dell’Ente e non in quello della persona fisica, tranne il caso in cui la società sia un mero schermo dell’autore del fatto illecito.  

Nel caso di specie la misura cautelare reale era stata eseguita su una polizza nel presupposto che le somme impiegate per la sottoscrizione del contratto sottostante, erano state ricevute dall’indagato per effetto della donazione effettuata in suo favore dal genitore e fossero di illecita provenienza, in quanto costituenti provento del delitto di bancarotta fraudolenta commesso  dall’ascendente – donante, così da integrare la fattispecie di riciclaggio in provvisoria contestazione costituente il fumus commissi delicti del sequestro. 

Il Tribunale di Bari in funzione di giudice del riesame del sequestro aveva rigettato l’appello cautelare.

La difesa dell’indagato proponeva ricorso per cassazione denunciando vizio di legge – sotto il profilo della carenza assoluta di motivazione – in ordine alla individuazione del profitto del reato presupposto di bancarotta secondo l’accusa poi trasformato con la successiva donazione nel valore della polizza realizzando così la condotta tipica di riciclaggio. 

La Suprema Corte ha accolto il ricorso ed annullato l’ordinanza impugnata disponendo nuovo giudizio nel quale, il Collegio cautelare di Bari, dovrà fare applicazione dei principi che seguono: 

Rispetto al rilievo che assume il rapporto tra la società strumento delle condotte di bancarotta e la persona fisica cui è affidata l’amministrazione della società, va ricordato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità (in fattispecie che riguardava la medesima vicenda fallimentare oggetto del procedimento penale in esame) secondo il quale «in tema di sequestro preventivo ex art.321, comma 2, cod. proc. pen., nel caso in cui il reato sia commesso nell’interesse di un’impresa dal suo legale rappresentante, il sequestro e la confisca diretta possono colpire le somme nella disponibilità della società e non già quelle in possesso del legale rappresentante; ne consegue che il compenso elargito dalla società a quest’ultimo non potrà essere ritenuto profitto del reato, a meno che non venga provata una situazione di osmosi economica tra persona giuridica e persona fisica che la rappresenta, in cui la società è un mero schermo formale grazie al quale la persona fisica agisce come effettivo titolare dei beni della medesima» (Sez. 5, n. 1971 del 11/10/2018, dep. 2019, Neri, Rv. 274440 – 01). 

La motivazione del Tribunale del riesame sul punto è apodittica e, pertanto, apparente poiché ignora questo principio, persistendo nell’affermare che le somme impiegate per sottoscrivere la polizza non provengono da conti personali del padre dell’imputato e finisce per affermare, in modo vago e indimostrato, che le risorse provengono dalla “generale condotta di bancarotta fraudolenta”, asserzione che non descrive la genesi dell’ipotizzato profitto, poi oggetto della condotta di riciclaggio.

By Claudio Ramelli © RIPRODUZIONE RISERVATA.